Cultural heritage come capitale sociale da cui trarre valore. Esigenza di un approccio interdisciplinare. Il convegno fra aziendalisti, architetti, storici, storici dell’arte, archeologi, giuristi, tecnologi, museologi ha fatto emergere tanto le difficoltà da superare, quanto le non trascurabili convergenze sulle quali far leva. In particolare si è insistito sulla esigenza di coprire un vuoto nel panorama accademico del nostro Paese, superando le disciplinari pretese di autosufficienza e convenendo che i linguaggi delle diverse discipline presentano un tasso di specializzazione eccessivo. A tal fine una solida premessa consiste nella valorizzazione quale assetto costituzionalmente necessario dei beni culturali, finalizzato allo sviluppo della cultura di tutti i cittadini e dunque incompatibile con ogni tipo di fruizione elitaria, e nel fatto che l’intento di trarne reddito economico materiale non può considerarsi contrario ai principi che governano questa materia, se perseguito senza pregiudizio per la tutela e per la valorizzazione rettamente intesa. E’ stata riconosciuta corretta in questo senso la locuzione “capitale culturale”, giacché essa riconosce il bene culturale come bene economico di rilevante vantaggio competitivo per i territori e per l’intero Paese in accordo con la Resource-based View e richiama le implicazioni manageriali della costituzione del capitale, della sua salvaguardia (contro i rischi di un suo decadimento) e del suo incremento di valore (sviluppo): aspetti connessi alle classiche attività di management per obiettivi: pianificazione, organizzazione, coordinamento, implementazione e controllo dei risultati. Dunque la scelta del termine “capitale” piuttosto che “patrimonio” costituisce una sfida importante anche per gli aziendalisti, perché, in ambito aziendale, diversamente dal patrimonio, che è l’insieme dei cespiti patrimoniali dell’impresa, il capitale genera risultati economici. Ma si tratta di una risorsa da utilizzare nel quadro di uno sviluppo sostenibile che tenga conto di molti aspetti, ai quali, con molta cautela, sono trasferibili le logiche che guidano il management delle imprese. In tale prospettiva l’opera di valorizzazione non deve essere riservata alle istituzioni pubbliche, ma ne va resa attivamente partecipe l’intera società civile. Giova a questo il largo impiego delle ICT, però ancora oggi “subite” da molti esperti di beni culturali. Fra le maggiori difficoltà con cui misurarsi è che la nozione di bene culturale ha determinato un enorme ampliamento del campo, talché un atto normativo come la Convenzione europea del Paesaggio postula la salvaguardia e la valorizzazione “sia dei paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia dei paesaggi della vita quotidiana”, sia dei “paesaggi degradati”. A questa estensione, però, non ha corrisposto un aumento di risorse finanziarie. Ciò rende anche più pressante la domanda se tutto debba essere conservato e impone una più rigorosa valutazione degli investimenti. Le operazioni di recupero e restauro vanno legate a progetti d’uso e gestionali che assicurino una durabile ed efficiente presenza del bene nella compagine sociale ed economica che lo contiene. Altrimenti la tutela passiva del patrimonio storico si scontra con impossibilità di fatto tanto per il costo della conservazione stessa, quanto per la costrizione degli spazi lasciati alla vitalità nuova. Alla base di tutto sta l’esigenza di una condivisa nozione di valore fra i tanti attori coinvolti.

Mission e prospettive della rivista

MONTELLA, Massimo
2011-01-01

Abstract

Cultural heritage come capitale sociale da cui trarre valore. Esigenza di un approccio interdisciplinare. Il convegno fra aziendalisti, architetti, storici, storici dell’arte, archeologi, giuristi, tecnologi, museologi ha fatto emergere tanto le difficoltà da superare, quanto le non trascurabili convergenze sulle quali far leva. In particolare si è insistito sulla esigenza di coprire un vuoto nel panorama accademico del nostro Paese, superando le disciplinari pretese di autosufficienza e convenendo che i linguaggi delle diverse discipline presentano un tasso di specializzazione eccessivo. A tal fine una solida premessa consiste nella valorizzazione quale assetto costituzionalmente necessario dei beni culturali, finalizzato allo sviluppo della cultura di tutti i cittadini e dunque incompatibile con ogni tipo di fruizione elitaria, e nel fatto che l’intento di trarne reddito economico materiale non può considerarsi contrario ai principi che governano questa materia, se perseguito senza pregiudizio per la tutela e per la valorizzazione rettamente intesa. E’ stata riconosciuta corretta in questo senso la locuzione “capitale culturale”, giacché essa riconosce il bene culturale come bene economico di rilevante vantaggio competitivo per i territori e per l’intero Paese in accordo con la Resource-based View e richiama le implicazioni manageriali della costituzione del capitale, della sua salvaguardia (contro i rischi di un suo decadimento) e del suo incremento di valore (sviluppo): aspetti connessi alle classiche attività di management per obiettivi: pianificazione, organizzazione, coordinamento, implementazione e controllo dei risultati. Dunque la scelta del termine “capitale” piuttosto che “patrimonio” costituisce una sfida importante anche per gli aziendalisti, perché, in ambito aziendale, diversamente dal patrimonio, che è l’insieme dei cespiti patrimoniali dell’impresa, il capitale genera risultati economici. Ma si tratta di una risorsa da utilizzare nel quadro di uno sviluppo sostenibile che tenga conto di molti aspetti, ai quali, con molta cautela, sono trasferibili le logiche che guidano il management delle imprese. In tale prospettiva l’opera di valorizzazione non deve essere riservata alle istituzioni pubbliche, ma ne va resa attivamente partecipe l’intera società civile. Giova a questo il largo impiego delle ICT, però ancora oggi “subite” da molti esperti di beni culturali. Fra le maggiori difficoltà con cui misurarsi è che la nozione di bene culturale ha determinato un enorme ampliamento del campo, talché un atto normativo come la Convenzione europea del Paesaggio postula la salvaguardia e la valorizzazione “sia dei paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia dei paesaggi della vita quotidiana”, sia dei “paesaggi degradati”. A questa estensione, però, non ha corrisposto un aumento di risorse finanziarie. Ciò rende anche più pressante la domanda se tutto debba essere conservato e impone una più rigorosa valutazione degli investimenti. Le operazioni di recupero e restauro vanno legate a progetti d’uso e gestionali che assicurino una durabile ed efficiente presenza del bene nella compagine sociale ed economica che lo contiene. Altrimenti la tutela passiva del patrimonio storico si scontra con impossibilità di fatto tanto per il costo della conservazione stessa, quanto per la costrizione degli spazi lasciati alla vitalità nuova. Alla base di tutto sta l’esigenza di una condivisa nozione di valore fra i tanti attori coinvolti.
2011
Internazionale
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11393/87801
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