Nella cultura dominante emerge una delegittimazione strisciante della fragilità: non si tratta di evadere da una condizione difettiva, ma di declassarla ad una forma subumana, o comunque indegna dell’umano, dinanzi alla quale la libertà individuale può almeno esercitare una sorta di “diritto di revoca”. Autonomia e fragilità diventano due attributi inconciliabili: la fedeltà al primo esige il ripudio del secondo. Un’alternativa a questo dilemma passa attraverso una riconsiderazione della fragilità come condizione che indebolisce e insieme impreziosisce la finitezza. Questa linea interpretativa, che attraversa una parte rilevante del pensiero occidentale, trova nell’ambito della filosofia contemporanea una riproposizione interessante e originale, che si potrebbe configurare come il tentativo di elaborare un’etica “forte” nonostante – e persino a prescindere da – un’ontologia “debole”; da Jonas a Levinas, con accenti ovviamente diversi, matura (in controtendenza rispetto al mito moderno dell’autonomia) un’etica eteronoma, che però, a differenza dell’etica classica, non ricava dalla trascendenza del bene la misura analogica di una vita buona, ma proprio nell’asimmetria “esteriore” della relazione – la vulnerabilità del futuro della vita sulla terra o la nudità indifesa del volto dell’altro – coglie il senso di un’alterità indisponibile che si traduce in un appello categorico alla responsabilità.
Quale fragilità
ALICI, Luigino
2011-01-01
Abstract
Nella cultura dominante emerge una delegittimazione strisciante della fragilità: non si tratta di evadere da una condizione difettiva, ma di declassarla ad una forma subumana, o comunque indegna dell’umano, dinanzi alla quale la libertà individuale può almeno esercitare una sorta di “diritto di revoca”. Autonomia e fragilità diventano due attributi inconciliabili: la fedeltà al primo esige il ripudio del secondo. Un’alternativa a questo dilemma passa attraverso una riconsiderazione della fragilità come condizione che indebolisce e insieme impreziosisce la finitezza. Questa linea interpretativa, che attraversa una parte rilevante del pensiero occidentale, trova nell’ambito della filosofia contemporanea una riproposizione interessante e originale, che si potrebbe configurare come il tentativo di elaborare un’etica “forte” nonostante – e persino a prescindere da – un’ontologia “debole”; da Jonas a Levinas, con accenti ovviamente diversi, matura (in controtendenza rispetto al mito moderno dell’autonomia) un’etica eteronoma, che però, a differenza dell’etica classica, non ricava dalla trascendenza del bene la misura analogica di una vita buona, ma proprio nell’asimmetria “esteriore” della relazione – la vulnerabilità del futuro della vita sulla terra o la nudità indifesa del volto dell’altro – coglie il senso di un’alterità indisponibile che si traduce in un appello categorico alla responsabilità.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.