La sofferenza che viene presa in considerazione non è la sofferenza come bene (bonum utile, che porta a un bene reale, bonum honestum quale può essere il dolore per il male commesso, come in Tommaso d’Aquino, o sacrificio della parte a vantaggio del tutto, purificazione dall’inautentico, come in Max Scheler), ma la sofferenza come male. Il problema è quello classico: come si concilia il male con l’esistenza di Dio, buono e onnipotente. Di qui, la teodicea dell’uomo, giustificazione di Dio da parte della ragione, e la teodicea di Dio, autogiustificazione di Dio nella rivelazione. 1. Teodicea dell’uomo. Sono noti i tentativi, nella storia della filosofia, per scagionare Dio dal male nel mondo: il male è privatio boni, e in quanto privazione non può essere oggetto della creazione divina; il male, fisico e morale, posto in essere dall’uomo, ha come responsabile l’uomo, non Dio; il male dipende da una causa deficiens, ma non è attribuibile a Dio, la cui virtus non è mai deficiens; il male consegue al bene per accidens et ex consequenti, ma non è ascrivibile a Dio in via diretta perché Dio di per sé crea solo l’essere che è bene; il male, se considerato all’interno di una totalità, può avere una sua funzione in ordine alla perfezione del tutto, perfezione che sola è voluta da Dio in via diretta. In breve, Dio non è mai causa diretta del male. Permette il male o per accidens, o per aver creato libero l’uomo che può anche abusare della propria libertà, ma tutto ciò che permette lo ordina al bene. Alla teodicea razionale sono state rivolte accuse, immotivate: ateismo, astrattezza, relativizzazione del male, rinuncia a combattere il male. Vere, invece, le considerazioni sulle sue difficoltà e sui suoi limiti: Dio non è conoscibile perfettamente; il male, in quanto negazione, non è suscettibile di apprensione diretta; il loro rapporto è di difficile individuazione. 2. Teodicea di Dio. È la teodicea in cui Dio non giustifica se stesso, ma dichiara ingiustificabile il male, e lo definisce suo nemico, e come tale da annientare. Così, non è più il male che può avanzare obiezioni contro Dio, ma è Dio l’obiettore, l’accusatore del male: non malum contra Deum, ma Deus contra malum. Cristo, vero uomo, e vero Dio, in comunione con l’umanità e in coincidenza con la volontà del Padre, ripristina l’orientamento dell’uomo verso Dio, e vince il male definitivamente, anche se il suo annientamento totale si avrà alla fine dei tempi . Ogni obiezione a partire dal male non ha più motivo di essere, perché il male è sconfitto, e l’uomo, eventuale accusatore, è salvato: scompaiono, ad un tempo, l’oggetto e il possibile autore dell’accusa. In questo quadro, il male della sofferenza cambia di segno: diventa comunione con Cristo, imitazione di Cristo, esperienza transitoria, attesa fiduciosa della vittoria finale del bene. Teodicea di Dio e teodicea dell’uomo: assoluta eterogeneità, o possibilità di raccordo? Tra le due forme di teodicea, discrepanti, una relazione sembra esservi. La teodicea dell’uomo è certa che Dio e il male sono due «dati» acquisiti (Dio per dimostrazione, il male per esperienza diretta), è ben cosciente della limitatezza della ragione umana, ma sa di non poter escludere che il non senso del male sia preso a suo servizio da una totalità di senso. Ora, la teodicea di Dio rappresenta proprio l’inveramento della teodicea dell’uomo. Ciò che questa vede come possibile, ipotizzabile, cioè il superamento del non senso da parte del senso e la non definitività del male, la teodicea di Dio lo afferma e lo realizza. Quanto poi al perché Dio permetta il male, sofferenza compresa, la teodicea di Dio non ha dato, non poteva dare, una risposta accessibile all’uomo: l’incomprensibilità del male, e del dolore, rientra nell’incomprensibilità, e insindacabilità, di Dio.
Sofferenza e teodicea
DE DOMINICIS, Emilio
2004-01-01
Abstract
La sofferenza che viene presa in considerazione non è la sofferenza come bene (bonum utile, che porta a un bene reale, bonum honestum quale può essere il dolore per il male commesso, come in Tommaso d’Aquino, o sacrificio della parte a vantaggio del tutto, purificazione dall’inautentico, come in Max Scheler), ma la sofferenza come male. Il problema è quello classico: come si concilia il male con l’esistenza di Dio, buono e onnipotente. Di qui, la teodicea dell’uomo, giustificazione di Dio da parte della ragione, e la teodicea di Dio, autogiustificazione di Dio nella rivelazione. 1. Teodicea dell’uomo. Sono noti i tentativi, nella storia della filosofia, per scagionare Dio dal male nel mondo: il male è privatio boni, e in quanto privazione non può essere oggetto della creazione divina; il male, fisico e morale, posto in essere dall’uomo, ha come responsabile l’uomo, non Dio; il male dipende da una causa deficiens, ma non è attribuibile a Dio, la cui virtus non è mai deficiens; il male consegue al bene per accidens et ex consequenti, ma non è ascrivibile a Dio in via diretta perché Dio di per sé crea solo l’essere che è bene; il male, se considerato all’interno di una totalità, può avere una sua funzione in ordine alla perfezione del tutto, perfezione che sola è voluta da Dio in via diretta. In breve, Dio non è mai causa diretta del male. Permette il male o per accidens, o per aver creato libero l’uomo che può anche abusare della propria libertà, ma tutto ciò che permette lo ordina al bene. Alla teodicea razionale sono state rivolte accuse, immotivate: ateismo, astrattezza, relativizzazione del male, rinuncia a combattere il male. Vere, invece, le considerazioni sulle sue difficoltà e sui suoi limiti: Dio non è conoscibile perfettamente; il male, in quanto negazione, non è suscettibile di apprensione diretta; il loro rapporto è di difficile individuazione. 2. Teodicea di Dio. È la teodicea in cui Dio non giustifica se stesso, ma dichiara ingiustificabile il male, e lo definisce suo nemico, e come tale da annientare. Così, non è più il male che può avanzare obiezioni contro Dio, ma è Dio l’obiettore, l’accusatore del male: non malum contra Deum, ma Deus contra malum. Cristo, vero uomo, e vero Dio, in comunione con l’umanità e in coincidenza con la volontà del Padre, ripristina l’orientamento dell’uomo verso Dio, e vince il male definitivamente, anche se il suo annientamento totale si avrà alla fine dei tempi . Ogni obiezione a partire dal male non ha più motivo di essere, perché il male è sconfitto, e l’uomo, eventuale accusatore, è salvato: scompaiono, ad un tempo, l’oggetto e il possibile autore dell’accusa. In questo quadro, il male della sofferenza cambia di segno: diventa comunione con Cristo, imitazione di Cristo, esperienza transitoria, attesa fiduciosa della vittoria finale del bene. Teodicea di Dio e teodicea dell’uomo: assoluta eterogeneità, o possibilità di raccordo? Tra le due forme di teodicea, discrepanti, una relazione sembra esservi. La teodicea dell’uomo è certa che Dio e il male sono due «dati» acquisiti (Dio per dimostrazione, il male per esperienza diretta), è ben cosciente della limitatezza della ragione umana, ma sa di non poter escludere che il non senso del male sia preso a suo servizio da una totalità di senso. Ora, la teodicea di Dio rappresenta proprio l’inveramento della teodicea dell’uomo. Ciò che questa vede come possibile, ipotizzabile, cioè il superamento del non senso da parte del senso e la non definitività del male, la teodicea di Dio lo afferma e lo realizza. Quanto poi al perché Dio permetta il male, sofferenza compresa, la teodicea di Dio non ha dato, non poteva dare, una risposta accessibile all’uomo: l’incomprensibilità del male, e del dolore, rientra nell’incomprensibilità, e insindacabilità, di Dio.File | Dimensione | Formato | |
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