La questione dell’empatia è balzata prepotentemente alla ribalta della scena e della riflessione contemporanea, dopo un più sommesso affacciarsi tra XIX e XX secolo, a partire dall’affermarsi odierno di un disagio umano, attribuibile a carenze affettive o disturbi della personalità, cui si è aggiunto, ai nostri giorni, il nuovo “strano” caso del cosiddetto burn-out ovvero di quella sindrome caratterizzata da esaurimento emozionale, depersonalizzazione e riduzione delle capacità personali, la quale, sebbene provochi una condizione di nervosismo, irrequietezza, apatia, indifferenza, cinismo, ostilità degli operatori sociosanitari, fra loro e verso terzi, al pari delle patologie da stress, se ne distingue, così come non coincide con le varie forme di nevrosi, in quanto non è disturbo della personalità ma del ruolo lavorativo. Il rischio di un tale esaurimento affettivo, che documenta che tutte le personali risorse di sensibilità alla propria e altrui umanità sono state bruciate, si manifesta, infatti, sempre più incombente- e a prescindere dal livello professionale – proprio tra gli operatori delle helping professions, cioè tra coloro che non solo praticano l’umanità come lavoro, prendendosi professionalmente cura di altri, ma a questo scopo hanno anche scelto e percorso appositi curricula formativi . Il fenomeno ha colto di sorpresa medici, psichiatri, psicologi, pedagogisti, filosofi morali, managers dell’organizzazione sanitaria e del lavoro che, unanimemente, ammettono di non disporre al momento di alcuna cura da prescrivere, salvo il consiglio di introdurre un cambiamento radicale nella propria vita professionale. E come potrebbe essere diversamente? Non ci ostiniamo, forse, a trattare quanto è intrinseco ed esclusivo appannaggio della soggettività umana, cioè il “sentire” sé e l’altro in una sempre nuovamente viva esperienza di relazione interumana, con approcci unilateralmente oggettivanti, ovvero con pratiche e saperi che, per dichiarato, legittimo e imprescindibile statuto epistemologico, escludono - e debbono escludere - dal loro campo d’indagine e d’intervento, proprio i fattori e le funzioni di soggettività, di cui l’umanità consta e a cui pratiche e saperi oggettivanti dovrebbero eventualmente subordinarsi? Completamente sfumata sembra, anzi, essere ormai per noi, la capacità di prendere consapevolezza degli atti empatici, di quegli atti di coscienza, cioè, che tuttora spontaneamente compiamo, imbattendoci nei nostri simili e riconoscendo in loro la nostra stessa stoffa umana; poca attenzione prestiamo a «sentire l’altro» in noi (=empatia o intro-patia), «nelle sue molteplici possibilità di creazione e di invenzione di sentimenti autentici, di modi di essere e di vivere come l’amicizia, l’amore, l’aiuto, il rispetto, la fiducia, la cura, l’ammirazione», e con ciò ci sfugge anche il vivo senso umano della nostra stessa esistenza ! Per questo, pur trattando quotidianamente nella cura il nostro simile, come avviene nelle helping professions, il carico eccessivo e ormai preponderante delle competenze e delle intenzionalità oggettivanti, che grava su di noi, ostacola fortemente l’attivarsi, nella relazione interpersonale, di quella attenzione alla possibilità di reciproca coltivazione dell’umano che, incrementando la nostra e la altrui umanità, ci può evitare l’esaurimento affettivo.

Ritrovare l’empatia perduta. Una questione aperta nella formazione degli operatori delle helping professions

VERDUCCI, Daniela
2008-01-01

Abstract

La questione dell’empatia è balzata prepotentemente alla ribalta della scena e della riflessione contemporanea, dopo un più sommesso affacciarsi tra XIX e XX secolo, a partire dall’affermarsi odierno di un disagio umano, attribuibile a carenze affettive o disturbi della personalità, cui si è aggiunto, ai nostri giorni, il nuovo “strano” caso del cosiddetto burn-out ovvero di quella sindrome caratterizzata da esaurimento emozionale, depersonalizzazione e riduzione delle capacità personali, la quale, sebbene provochi una condizione di nervosismo, irrequietezza, apatia, indifferenza, cinismo, ostilità degli operatori sociosanitari, fra loro e verso terzi, al pari delle patologie da stress, se ne distingue, così come non coincide con le varie forme di nevrosi, in quanto non è disturbo della personalità ma del ruolo lavorativo. Il rischio di un tale esaurimento affettivo, che documenta che tutte le personali risorse di sensibilità alla propria e altrui umanità sono state bruciate, si manifesta, infatti, sempre più incombente- e a prescindere dal livello professionale – proprio tra gli operatori delle helping professions, cioè tra coloro che non solo praticano l’umanità come lavoro, prendendosi professionalmente cura di altri, ma a questo scopo hanno anche scelto e percorso appositi curricula formativi . Il fenomeno ha colto di sorpresa medici, psichiatri, psicologi, pedagogisti, filosofi morali, managers dell’organizzazione sanitaria e del lavoro che, unanimemente, ammettono di non disporre al momento di alcuna cura da prescrivere, salvo il consiglio di introdurre un cambiamento radicale nella propria vita professionale. E come potrebbe essere diversamente? Non ci ostiniamo, forse, a trattare quanto è intrinseco ed esclusivo appannaggio della soggettività umana, cioè il “sentire” sé e l’altro in una sempre nuovamente viva esperienza di relazione interumana, con approcci unilateralmente oggettivanti, ovvero con pratiche e saperi che, per dichiarato, legittimo e imprescindibile statuto epistemologico, escludono - e debbono escludere - dal loro campo d’indagine e d’intervento, proprio i fattori e le funzioni di soggettività, di cui l’umanità consta e a cui pratiche e saperi oggettivanti dovrebbero eventualmente subordinarsi? Completamente sfumata sembra, anzi, essere ormai per noi, la capacità di prendere consapevolezza degli atti empatici, di quegli atti di coscienza, cioè, che tuttora spontaneamente compiamo, imbattendoci nei nostri simili e riconoscendo in loro la nostra stessa stoffa umana; poca attenzione prestiamo a «sentire l’altro» in noi (=empatia o intro-patia), «nelle sue molteplici possibilità di creazione e di invenzione di sentimenti autentici, di modi di essere e di vivere come l’amicizia, l’amore, l’aiuto, il rispetto, la fiducia, la cura, l’ammirazione», e con ciò ci sfugge anche il vivo senso umano della nostra stessa esistenza ! Per questo, pur trattando quotidianamente nella cura il nostro simile, come avviene nelle helping professions, il carico eccessivo e ormai preponderante delle competenze e delle intenzionalità oggettivanti, che grava su di noi, ostacola fortemente l’attivarsi, nella relazione interpersonale, di quella attenzione alla possibilità di reciproca coltivazione dell’umano che, incrementando la nostra e la altrui umanità, ci può evitare l’esaurimento affettivo.
2008
Nazionale
http://e-ntrasites.univpm.it/Medicina/Engine/RAServeFile.php/f//LETTERE_0806.pdf
File in questo prodotto:
Non ci sono file associati a questo prodotto.

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11393/36658
 Attenzione

Attenzione! I dati visualizzati non sono stati sottoposti a validazione da parte dell'ateneo

Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact