Drawing on a broadly Warburgian methodology, this essay offers an entirely innovative reconstruction of the visual genealogy behind the use of Winckelmannian iconography in the Fascist periodical “La Difesa della Razza” (1938–1943). It demonstrates how, at the moment of greatest convergence and alignment between Fascist and National Socialist policies, the editorial team of “La difesa” pursued a reorientation towards aesthetic parameters which – since the Enlightenment – had, in ways both seemingly innocent and profoundly culpable, nourished the seeds of racism. The essay is based on the thesis that, through the new modernist language of photomontage, which Fascist propaganda extensively deployed, “La difesa della razza” enacted, on a scholarly yet mass-accessible level, an operation akin to that of the Vatican Belvedere: it creates an imaginary museum of racism, richly interwoven with internal cross-references. This museum draws on an iconographic knowledge widely shared within the collective consciousness, composed of a set of ambivalent images that over the centuries have accumulated a repertoire of racial stereotypes.

Avvalendosi di una metodologia ampiamente ispirata ad Aby Warburg, il saggio ricostruisce in maniera del tutto innovativa la geneaologia visuale del ricorso all’iconografia winckel manniana nel periodico fascista “La difesa della razza” (1938-1943) e dimostra come nel momento di massima tangenza e aderenza fra la politica fascista e quella nazionalsocia lista la redazione de “La difesa” operi un ri-orientamento verso parametri estetici che sin dall’Illuminismo hanno nutrito in maniera tanto innocente quanto colpevole il seme del razzismo. Il saggio si basa sulla tesi che attraverso il nuovo linguaggio modernista del foto-montaggio, a cui la propaganda fascista faceva ampiamente ricorso, “La difesa della razza” compia su un piano colto ma al contempo accessibile alla massa un’operazione simile a quella del Belvedere vaticano, ovvero crei un museo immaginario del razzismo ricco di rimandi interni che si richiama a un sapere iconografico ampiamente condiviso nella coscienza collettiva e costituito da un insieme di immagini ambivalenti nelle quali si è sedimentato nei secoli un repertorio di stereotipi razziali.

Un Belvedere “foto-montato. Per una geneaologia winckelmanniana dell’apparato iconografico de «La difesa della razza» (1938-1943)

Scialdone, M. P.
2025-01-01

Abstract

Drawing on a broadly Warburgian methodology, this essay offers an entirely innovative reconstruction of the visual genealogy behind the use of Winckelmannian iconography in the Fascist periodical “La Difesa della Razza” (1938–1943). It demonstrates how, at the moment of greatest convergence and alignment between Fascist and National Socialist policies, the editorial team of “La difesa” pursued a reorientation towards aesthetic parameters which – since the Enlightenment – had, in ways both seemingly innocent and profoundly culpable, nourished the seeds of racism. The essay is based on the thesis that, through the new modernist language of photomontage, which Fascist propaganda extensively deployed, “La difesa della razza” enacted, on a scholarly yet mass-accessible level, an operation akin to that of the Vatican Belvedere: it creates an imaginary museum of racism, richly interwoven with internal cross-references. This museum draws on an iconographic knowledge widely shared within the collective consciousness, composed of a set of ambivalent images that over the centuries have accumulated a repertoire of racial stereotypes.
2025
EUM
Avvalendosi di una metodologia ampiamente ispirata ad Aby Warburg, il saggio ricostruisce in maniera del tutto innovativa la geneaologia visuale del ricorso all’iconografia winckel manniana nel periodico fascista “La difesa della razza” (1938-1943) e dimostra come nel momento di massima tangenza e aderenza fra la politica fascista e quella nazionalsocia lista la redazione de “La difesa” operi un ri-orientamento verso parametri estetici che sin dall’Illuminismo hanno nutrito in maniera tanto innocente quanto colpevole il seme del razzismo. Il saggio si basa sulla tesi che attraverso il nuovo linguaggio modernista del foto-montaggio, a cui la propaganda fascista faceva ampiamente ricorso, “La difesa della razza” compia su un piano colto ma al contempo accessibile alla massa un’operazione simile a quella del Belvedere vaticano, ovvero crei un museo immaginario del razzismo ricco di rimandi interni che si richiama a un sapere iconografico ampiamente condiviso nella coscienza collettiva e costituito da un insieme di immagini ambivalenti nelle quali si è sedimentato nei secoli un repertorio di stereotipi razziali.
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