Il Rapporto Annuale Istat del 2014 ci consegna una disamina impietosa dell’economia italiana, sfibrata dal quarto anno consecutivo di recessione, che riporta il prodotto interno lordo del paese a livelli inferiori a quelli dell’anno 2000 (Istat, 2014). In particolare, in esso si evidenziano con chiarezza due nodi nevralgici che fanno del caso italiano un’anomalia negativa nel pur mediocre panorama economico continentale: le dinamiche del mercato del lavoro e le politiche fiscali/redistributive implementate a partire dalla crisi del 2008. Nel primo caso, colpisce immediatamente l’ulteriore aumento della disoccupazione (il tasso di disoccupazione era nel 2013 il 12,2%, salito al 12,7 nel 2014 e sceso ali’11,9% nel 2015), ritornato a livelli non dissimili da quelli della prima metà degli anni ’50. Pur tuttavia, è bene sottolineare che si tratta di un dato artatamente sottostimato, che impedisce di cogliere la reale gravità del fenomeno in atto: riferendoci, in alternativa, al concetto di real unemployment (ILO), ad esso dovremmo infatti sommare (almeno) l’abnorme mole dei lavoratori scoraggiati (14,2% della forza lavoro, a fronte di una media europea di appena il 4,1%) e dei lavoratori in cassa integrazione a zero ore (527.986 nel 2014, secondo le elaborazioni dei dati Inps recentemente fornite dalla Cgil). In altri termini, si giungerebbe così alla eloquente conclusione che quasi il 28% della forza lavoro italiana non ha un impiego, pur essendo disposta ad accettarlo. Inoltre, è tristemente noto che il tasso di attività in Italia è molto più basso che negli altri paesi europei: nel 2013 era del 63,5%, contro una media del 71,9% dell’Unione Europea (Eurostat). Per di più, queste tendenze si sono ormai consolidate nel mercato del lavoro già da alcuni anni, rischiando così di trasformarsi in nodi strutturali di lungo periodo, specie per alcune specifiche categorie di lavoratori. Non sorprende quindi che anche il tasso di disoccupazione di lungo periodo in Italia sia trai i più alti (56,9% nel 2013, contro il 46,5%) dell’Unione europea secondo l’Ocse). Nel secondo caso, il triste primato dell’Italia (comparata al resto dei paesi dell’area euro, UME) è stato quello di non aver implementato alcun tipo di politica fiscale espansiva per tutto il quadriennio 2008-2012, sommando, di converso, politiche restrittive per un totale di oltre cinque punti percentuali del Pil: in prevalenza, forti aumenti tributari (+122 miliardi di euro) ma anche severi tagli lineari a Ministeri ed enti locali (-53 miliardi di euro) (Istat, 2014). Il paradossale risultato di questa “Grande Ritirata” della mano pubblica nel bel mezzo della più grave crisi del dopoguerra è stato dunque quello di determinare, unico tra i paesi UME, un costante avanzo primario, accompagnato però da una severa recessione (-6,7% del PIL nel quinquennio in questione) e, quindi, dal graduale peggioramento della relazione debito/PIL (passata dal 106% al 127%). Facendo riferimento ai lavori di Federico Caffè si dovrebbe argomentare che questi fenomeni, lungi dal sorprendere, costituiscano le due facce di una stessa moneta e rimandino a problemi tradizionali e mai affrontati dell’economia italiana, che l’economista abruzzese sintetizzò nell’efficace concetto di spontaneismo (Caffè, 1979): l’inscalfibile dogma cioè che lo sviluppo economico e quindi il livello dell’impiego debbano essere pensate, in Italia, come il prodotto incidentale del libero operare delle forze di mercato. Come noto, allo spontaneismo Caffè contrapponeva un’idea di Stato occupatore di ultima istanza (Caffè, 1990), responsabile del livello di impiego tanto in termini quantitativi che qualitativi. Un simile e fecondo punto di vista è stato in seguito sviluppato da Hyman Minsky (1986; 2014)e Philip Harvey (1989) ed in tempi più recenti da numerosi contributi in materia di job guarantee (Burgess e Mitchell, 1998; Wray e Forstater, 2004), tra i quali spicca quello di Rania Antonopoulos (2014) con riferimento alla crisi greca. Partendo da un simile background teorico, l’obiettivo di questo lavoro è mostrare, attraverso alcuni semplici fatti stilizzati, come la “Grande Ritirata” dello stato e le politiche di austerità (entrambe iniziate molto prima della crisi ma che hanno avuto una brutale accelerazione con essa) siano all’origine dei crescenti e persistenti problemi evidenziati dal mercato del lavoro italiano e costituiscano, ex post, una conferma della fecondità ed attualità dell’analisi di Caffè . In secondo luogo, riprendendo vari spunti forniti dallo stesso Caffè (1983, 1990), il lavoro intende enfatizzare gli ulteriori effetti (nefasti) dello spontaneismo sulla struttura industriale e, indirettamente, sulla qualità dell’occupazione italiana. In particolare, evidenziando il costante calo dell’occupazione nella manifattura (iniziato già da molto prima della crisi) e la sua distribuzione sbilanciata, in modo molto più alto che negli altri paesi europei, nel segmento della micro impresa, prevalentemente rivolta al mercato interno e caratterizzata da bassi investimenti, bassa produttività del lavoro e scarsa (o nulla) dinamica di innovazione. Di conseguenza, l’articolo sarà suddiviso in cinque sezioni: nella seconda, presenteremo la nostra ipotesi di lavoro facendo riferimento, tra gli altri, ai lavori menzionati in precedenza di Caffè; nella terza suggeriremo che il crollo delle politiche fiscali espansive e le severe politiche di austerità sono strettamente collegate con le dinamiche del mercato del lavoro italiano; nella quarta ci focalizzeremo sui cambiamenti della struttura manifatturiera determinati dalla scomparsa della politica industriale; infine, tireremo le somme del nostro ragionamento riflettendo su di alcune possibili politiche economiche inspirate dall’idea di stato occupatore di ultima istanza recentemente elaborate con riferimento alla crisi greca (Antonopoulos, 2014).

L'inscalfibile egemonia dello spontaneismo. La "grande ritirata" dello stato e la crisi dell'occupazione in Italia

Stefano Perri;
2017-01-01

Abstract

Il Rapporto Annuale Istat del 2014 ci consegna una disamina impietosa dell’economia italiana, sfibrata dal quarto anno consecutivo di recessione, che riporta il prodotto interno lordo del paese a livelli inferiori a quelli dell’anno 2000 (Istat, 2014). In particolare, in esso si evidenziano con chiarezza due nodi nevralgici che fanno del caso italiano un’anomalia negativa nel pur mediocre panorama economico continentale: le dinamiche del mercato del lavoro e le politiche fiscali/redistributive implementate a partire dalla crisi del 2008. Nel primo caso, colpisce immediatamente l’ulteriore aumento della disoccupazione (il tasso di disoccupazione era nel 2013 il 12,2%, salito al 12,7 nel 2014 e sceso ali’11,9% nel 2015), ritornato a livelli non dissimili da quelli della prima metà degli anni ’50. Pur tuttavia, è bene sottolineare che si tratta di un dato artatamente sottostimato, che impedisce di cogliere la reale gravità del fenomeno in atto: riferendoci, in alternativa, al concetto di real unemployment (ILO), ad esso dovremmo infatti sommare (almeno) l’abnorme mole dei lavoratori scoraggiati (14,2% della forza lavoro, a fronte di una media europea di appena il 4,1%) e dei lavoratori in cassa integrazione a zero ore (527.986 nel 2014, secondo le elaborazioni dei dati Inps recentemente fornite dalla Cgil). In altri termini, si giungerebbe così alla eloquente conclusione che quasi il 28% della forza lavoro italiana non ha un impiego, pur essendo disposta ad accettarlo. Inoltre, è tristemente noto che il tasso di attività in Italia è molto più basso che negli altri paesi europei: nel 2013 era del 63,5%, contro una media del 71,9% dell’Unione Europea (Eurostat). Per di più, queste tendenze si sono ormai consolidate nel mercato del lavoro già da alcuni anni, rischiando così di trasformarsi in nodi strutturali di lungo periodo, specie per alcune specifiche categorie di lavoratori. Non sorprende quindi che anche il tasso di disoccupazione di lungo periodo in Italia sia trai i più alti (56,9% nel 2013, contro il 46,5%) dell’Unione europea secondo l’Ocse). Nel secondo caso, il triste primato dell’Italia (comparata al resto dei paesi dell’area euro, UME) è stato quello di non aver implementato alcun tipo di politica fiscale espansiva per tutto il quadriennio 2008-2012, sommando, di converso, politiche restrittive per un totale di oltre cinque punti percentuali del Pil: in prevalenza, forti aumenti tributari (+122 miliardi di euro) ma anche severi tagli lineari a Ministeri ed enti locali (-53 miliardi di euro) (Istat, 2014). Il paradossale risultato di questa “Grande Ritirata” della mano pubblica nel bel mezzo della più grave crisi del dopoguerra è stato dunque quello di determinare, unico tra i paesi UME, un costante avanzo primario, accompagnato però da una severa recessione (-6,7% del PIL nel quinquennio in questione) e, quindi, dal graduale peggioramento della relazione debito/PIL (passata dal 106% al 127%). Facendo riferimento ai lavori di Federico Caffè si dovrebbe argomentare che questi fenomeni, lungi dal sorprendere, costituiscano le due facce di una stessa moneta e rimandino a problemi tradizionali e mai affrontati dell’economia italiana, che l’economista abruzzese sintetizzò nell’efficace concetto di spontaneismo (Caffè, 1979): l’inscalfibile dogma cioè che lo sviluppo economico e quindi il livello dell’impiego debbano essere pensate, in Italia, come il prodotto incidentale del libero operare delle forze di mercato. Come noto, allo spontaneismo Caffè contrapponeva un’idea di Stato occupatore di ultima istanza (Caffè, 1990), responsabile del livello di impiego tanto in termini quantitativi che qualitativi. Un simile e fecondo punto di vista è stato in seguito sviluppato da Hyman Minsky (1986; 2014)e Philip Harvey (1989) ed in tempi più recenti da numerosi contributi in materia di job guarantee (Burgess e Mitchell, 1998; Wray e Forstater, 2004), tra i quali spicca quello di Rania Antonopoulos (2014) con riferimento alla crisi greca. Partendo da un simile background teorico, l’obiettivo di questo lavoro è mostrare, attraverso alcuni semplici fatti stilizzati, come la “Grande Ritirata” dello stato e le politiche di austerità (entrambe iniziate molto prima della crisi ma che hanno avuto una brutale accelerazione con essa) siano all’origine dei crescenti e persistenti problemi evidenziati dal mercato del lavoro italiano e costituiscano, ex post, una conferma della fecondità ed attualità dell’analisi di Caffè . In secondo luogo, riprendendo vari spunti forniti dallo stesso Caffè (1983, 1990), il lavoro intende enfatizzare gli ulteriori effetti (nefasti) dello spontaneismo sulla struttura industriale e, indirettamente, sulla qualità dell’occupazione italiana. In particolare, evidenziando il costante calo dell’occupazione nella manifattura (iniziato già da molto prima della crisi) e la sua distribuzione sbilanciata, in modo molto più alto che negli altri paesi europei, nel segmento della micro impresa, prevalentemente rivolta al mercato interno e caratterizzata da bassi investimenti, bassa produttività del lavoro e scarsa (o nulla) dinamica di innovazione. Di conseguenza, l’articolo sarà suddiviso in cinque sezioni: nella seconda, presenteremo la nostra ipotesi di lavoro facendo riferimento, tra gli altri, ai lavori menzionati in precedenza di Caffè; nella terza suggeriremo che il crollo delle politiche fiscali espansive e le severe politiche di austerità sono strettamente collegate con le dinamiche del mercato del lavoro italiano; nella quarta ci focalizzeremo sui cambiamenti della struttura manifatturiera determinati dalla scomparsa della politica industriale; infine, tireremo le somme del nostro ragionamento riflettendo su di alcune possibili politiche economiche inspirate dall’idea di stato occupatore di ultima istanza recentemente elaborate con riferimento alla crisi greca (Antonopoulos, 2014).
2017
978-88-9313-064-6
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