Da diversi anni il legislatore comunitario, sovente sulla scorta di accordi conclusi tra le parti sociali, statuisce nelle direttive in materia di politica sociale che la loro attuazione non deve costituire, per gli Stati membri, una valida giustificazione (o un motivo o ragione validi) per realizzare un regresso rispetto al livello generale di tutela garantito dalle legislazioni nazionali preesistenti. L’introduzione di queste clausole, oramai note come clausole di non regresso, dapprima nei considerando e poi anche nella struttura propriamente normativa delle direttive, ha, con crescente incidenza, imposto all’attenzione della letteratura giuslavoristica la necessità di sciogliere i nodi interpretativi sottesi alle disposizioni in esame. La soluzione agli interrogativi passa, peraltro, attraverso lo scioglimento di un dubbio che sta a monte della clausola stessa e prescinde dal suo significato, vale a dire la possibilità per l’ordinamento comunitario di imporre un vero e proprio obbligo di cristallizzazione degli standard di tutela in precedenza acquisiti da ogni ordinamento nazionale. Solo dopo aver risposto a questa domanda è possibile affrontare sistematicamente il problema del valore giuridico alla clausola di non regresso. Risultando evidente come, dalla sua qualificazione di limite alla reformatio in peius, scaturiscano molte delle altre problematiche che accendono il dibattito, quali quelle relative al contenuto di tale limite, al suo ambito di efficacia (temporale e sostanziale), ai criteri di determinazione del regresso (cioè se debba essere apprezzato esclusivamente con riguardo alle tutele dei lavoratori già occupati), per giungere alla questione della giustiziabilità di eventuali violazioni del precetto stesso

Regresso delle tutele e vincoli comunitari

FRANZA, GABRIELE
2006-01-01

Abstract

Da diversi anni il legislatore comunitario, sovente sulla scorta di accordi conclusi tra le parti sociali, statuisce nelle direttive in materia di politica sociale che la loro attuazione non deve costituire, per gli Stati membri, una valida giustificazione (o un motivo o ragione validi) per realizzare un regresso rispetto al livello generale di tutela garantito dalle legislazioni nazionali preesistenti. L’introduzione di queste clausole, oramai note come clausole di non regresso, dapprima nei considerando e poi anche nella struttura propriamente normativa delle direttive, ha, con crescente incidenza, imposto all’attenzione della letteratura giuslavoristica la necessità di sciogliere i nodi interpretativi sottesi alle disposizioni in esame. La soluzione agli interrogativi passa, peraltro, attraverso lo scioglimento di un dubbio che sta a monte della clausola stessa e prescinde dal suo significato, vale a dire la possibilità per l’ordinamento comunitario di imporre un vero e proprio obbligo di cristallizzazione degli standard di tutela in precedenza acquisiti da ogni ordinamento nazionale. Solo dopo aver risposto a questa domanda è possibile affrontare sistematicamente il problema del valore giuridico alla clausola di non regresso. Risultando evidente come, dalla sua qualificazione di limite alla reformatio in peius, scaturiscano molte delle altre problematiche che accendono il dibattito, quali quelle relative al contenuto di tale limite, al suo ambito di efficacia (temporale e sostanziale), ai criteri di determinazione del regresso (cioè se debba essere apprezzato esclusivamente con riguardo alle tutele dei lavoratori già occupati), per giungere alla questione della giustiziabilità di eventuali violazioni del precetto stesso
2006
Cedam
Nazionale
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