Molto si parla, da diversi punti di vista e ambiti disciplinari, della natura umana. Se per un verso, infatti, si ricorda che “natura”, quindi anche quella natura che qualifichiamo come umana, viene da nascor e dunque al di là della “bufera che ne ha scosso le fondamenta” caratterizza ciascuno per il fatto stesso che sta al mondo, per altro verso è fuori da ogni dubbio che parlare di “natura umana” non va da sé. Già Jean-Paul Sartre, ne L’esistenzialismo è un umanismo, ricordava – riprendendo e variando un motivo di Martin Heidegger – che nessuna essenza precede l’esistenza; affermazione da cui segue la sua critica a ogni concezione di “natura umana”, il che tuttavia, non gli impedisce di continuare a parlare di “uomo”. Cosa che Ravasi accoglie cogliendo la sfida di quell’era postmoderna che, nel 1979, Jean-François Lyotard individuava come segnata dalla crisi dei due metaracconti della modernità, il “récit des Lumières” e quello dell’idealismo, crisi che trascinava con sé anche quella di ogni soggettivismo e umanismo. Ciò che resta di questa radicale messa in discussione, e che è il punto di ripartenza di Ravasi, è la riflessione sulla dignità della persona e sulla sua dialogicità originaria. Perché, tuttavia, questa relazionalità non dovrebbe essere sottoposta al medesimo lavoro di critica cui si sono sottoposte le metanarrazioni della natura umana, rivelandone così la medesima fragilità? Fragilità viene da fragilis che, come ci ricorda Isidoro da Siviglia nelle Etimologie X, 101, si dice di tutto ciò che «può essere facilmente infranto» (fragilis dictus eo quod facile frangi potest). Quando infatti si dà l’informazione che qualcosa è fragile, lo si dice per segnalare che ciò che non si vede perché un involucro lo copre, può essere infranto. Anzi, proprio perché è prezioso va protetto, segnalando l’aggettivo “fragile” il fatto che qualcosa può essere perduto, che è appeso al filo (più o meno sottile) dell’attenzione che gli sarà prestata. Fragile, perciò, non segnala un negativo, ma parla di un positivo che deve essere salvaguardato, appunto, per non essere perduto. Volendo trovare attraverso il fragile un punto condivisibile anche a quanti rifiutano l’idea di “natura umana” pur parlando di uomo, potremmo allora avanzare l’ipotesi di un prezioso dell’uomo che, in quanto tale, va custodito. Resta la questione di come tale prezioso possa esser detto, questione che l'articolo si propone di indagare.

Fragilità e irriducibile relazione

CANULLO, Carla
2016-01-01

Abstract

Molto si parla, da diversi punti di vista e ambiti disciplinari, della natura umana. Se per un verso, infatti, si ricorda che “natura”, quindi anche quella natura che qualifichiamo come umana, viene da nascor e dunque al di là della “bufera che ne ha scosso le fondamenta” caratterizza ciascuno per il fatto stesso che sta al mondo, per altro verso è fuori da ogni dubbio che parlare di “natura umana” non va da sé. Già Jean-Paul Sartre, ne L’esistenzialismo è un umanismo, ricordava – riprendendo e variando un motivo di Martin Heidegger – che nessuna essenza precede l’esistenza; affermazione da cui segue la sua critica a ogni concezione di “natura umana”, il che tuttavia, non gli impedisce di continuare a parlare di “uomo”. Cosa che Ravasi accoglie cogliendo la sfida di quell’era postmoderna che, nel 1979, Jean-François Lyotard individuava come segnata dalla crisi dei due metaracconti della modernità, il “récit des Lumières” e quello dell’idealismo, crisi che trascinava con sé anche quella di ogni soggettivismo e umanismo. Ciò che resta di questa radicale messa in discussione, e che è il punto di ripartenza di Ravasi, è la riflessione sulla dignità della persona e sulla sua dialogicità originaria. Perché, tuttavia, questa relazionalità non dovrebbe essere sottoposta al medesimo lavoro di critica cui si sono sottoposte le metanarrazioni della natura umana, rivelandone così la medesima fragilità? Fragilità viene da fragilis che, come ci ricorda Isidoro da Siviglia nelle Etimologie X, 101, si dice di tutto ciò che «può essere facilmente infranto» (fragilis dictus eo quod facile frangi potest). Quando infatti si dà l’informazione che qualcosa è fragile, lo si dice per segnalare che ciò che non si vede perché un involucro lo copre, può essere infranto. Anzi, proprio perché è prezioso va protetto, segnalando l’aggettivo “fragile” il fatto che qualcosa può essere perduto, che è appeso al filo (più o meno sottile) dell’attenzione che gli sarà prestata. Fragile, perciò, non segnala un negativo, ma parla di un positivo che deve essere salvaguardato, appunto, per non essere perduto. Volendo trovare attraverso il fragile un punto condivisibile anche a quanti rifiutano l’idea di “natura umana” pur parlando di uomo, potremmo allora avanzare l’ipotesi di un prezioso dell’uomo che, in quanto tale, va custodito. Resta la questione di come tale prezioso possa esser detto, questione che l'articolo si propone di indagare.
2016
Vita e Pensiero
Nazionale
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11393/223609
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