La Costituzione repubblicana del 1948, che fissava l’obbligo di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, finalizzò allo “sviluppo della cultura” la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. Tuttavia, fino al decreto legislativo 112 del 1998, la tutela è stata l’unica e onnicomprensiva funzione giuridicamente accreditata. Solo dal 2001 la valorizzazione ha assunto rango costituzionale e dal 2009 il ministero ha costituito una direzione generale apposita. Nel 2004 il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio ha infine stabilito che “la valorizzazione consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso”. Ha chiarito inoltre che le attività di valorizzazione dei beni culturali “consistono nella costituzione ed organizzazione stabile di risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali, finalizzate all’esercizio delle funzioni” e che salvaguardia e reintegrazione dei valori del paesaggio vanno concepiti “anche nella prospettiva dello sviluppo sostenibile”. Quali debbano essere i “livelli di qualità della valorizzazione” per i beni di pertinenza pubblica è sancito dall’articolo 114, secondo il quale essi vengono fissati e aggiornati periodicamente dal ministero, dalle regioni e dagli altri enti pubblici territoriali anche con il concorso delle università. Tuttavia in che cosa consista la valorizzazione e come possa essere praticata e senza danno per la tutela non è questione prettamente giuridica, giacché investe alla radice le nozioni di cultura e di bene pubblico, gli stessi statuti disciplinari delle scienze soprattutto storiche e, con sempre maggiore insistenza negli ultimi decenni, l’ambito stesso dell’economia. La soluzione possibile non potrà che venire dalla formulazione di norme attuative. In verità un contributo avrebbe dovuto darlo la commissione per la definizione dei “livelli minimi uniformi di qualità delle attività di valorizzazione”, costituita nel 2006 dall’allora ministro Rutelli. Ma il lavoro prodotto è fermo sul tavolo della Conferenza unificata. È apparso pertanto interessante il tentativo di ricostruire l’acceso e complicato dibattito sviluppatosi in Italia all’incirca nell’arco di un secolo, ma specialmente dal secondo dopoguerra, dando ampio spazio alla citazione testuale delle dichiarazioni dei protagonisti. Perfino ai sensi di legge la valorizzazione è infatti materia assai complessa, coinvolgente, come si è visto, anche il paesaggio e, dunque, la generalità dei beni culturali. Il museo, che ne occupa una minima parte, assume comunque un’importanza notevole in quanto strumento finalizzato ad acquisire e a diffondere conoscenze e idoneo a concorrere, aprendosi al territorio, agli stessi obiettivi di tutela. Nel riferire le vicende del dibattito italiano in tema di valorizzazione si è preso come guida l’Atto di indirizzo sui criteri minimi e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei emanato nel 2001, perché è sembrato importante cogliere gli antefatti di un provvedimento che per la prima volta ha disciplinato, benché con dubitabile forza impositiva, la cultura, almeno tecnica, che dovrebbe informare l’impianto, l’organizzazione, il funzionamento e gli obiettivi dei nostri musei sia per quanto li accomuna agli istituti di altri Paesi, sia per quanto li caratterizza, a cominciare da quel rapporto con il territorio al quale l’Atto di indirizzo ha voluto dedicare un ottavo ambito non compreso fra le disposizioni di valenza internazionale previste dal codice deontologico dell’ICOM.

Processo al museo. Sessant'anni di dibattito sulla valorizzazione museale in Italia

DRAGONI, PATRIZIA
2010-01-01

Abstract

La Costituzione repubblicana del 1948, che fissava l’obbligo di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, finalizzò allo “sviluppo della cultura” la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. Tuttavia, fino al decreto legislativo 112 del 1998, la tutela è stata l’unica e onnicomprensiva funzione giuridicamente accreditata. Solo dal 2001 la valorizzazione ha assunto rango costituzionale e dal 2009 il ministero ha costituito una direzione generale apposita. Nel 2004 il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio ha infine stabilito che “la valorizzazione consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso”. Ha chiarito inoltre che le attività di valorizzazione dei beni culturali “consistono nella costituzione ed organizzazione stabile di risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali, finalizzate all’esercizio delle funzioni” e che salvaguardia e reintegrazione dei valori del paesaggio vanno concepiti “anche nella prospettiva dello sviluppo sostenibile”. Quali debbano essere i “livelli di qualità della valorizzazione” per i beni di pertinenza pubblica è sancito dall’articolo 114, secondo il quale essi vengono fissati e aggiornati periodicamente dal ministero, dalle regioni e dagli altri enti pubblici territoriali anche con il concorso delle università. Tuttavia in che cosa consista la valorizzazione e come possa essere praticata e senza danno per la tutela non è questione prettamente giuridica, giacché investe alla radice le nozioni di cultura e di bene pubblico, gli stessi statuti disciplinari delle scienze soprattutto storiche e, con sempre maggiore insistenza negli ultimi decenni, l’ambito stesso dell’economia. La soluzione possibile non potrà che venire dalla formulazione di norme attuative. In verità un contributo avrebbe dovuto darlo la commissione per la definizione dei “livelli minimi uniformi di qualità delle attività di valorizzazione”, costituita nel 2006 dall’allora ministro Rutelli. Ma il lavoro prodotto è fermo sul tavolo della Conferenza unificata. È apparso pertanto interessante il tentativo di ricostruire l’acceso e complicato dibattito sviluppatosi in Italia all’incirca nell’arco di un secolo, ma specialmente dal secondo dopoguerra, dando ampio spazio alla citazione testuale delle dichiarazioni dei protagonisti. Perfino ai sensi di legge la valorizzazione è infatti materia assai complessa, coinvolgente, come si è visto, anche il paesaggio e, dunque, la generalità dei beni culturali. Il museo, che ne occupa una minima parte, assume comunque un’importanza notevole in quanto strumento finalizzato ad acquisire e a diffondere conoscenze e idoneo a concorrere, aprendosi al territorio, agli stessi obiettivi di tutela. Nel riferire le vicende del dibattito italiano in tema di valorizzazione si è preso come guida l’Atto di indirizzo sui criteri minimi e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei emanato nel 2001, perché è sembrato importante cogliere gli antefatti di un provvedimento che per la prima volta ha disciplinato, benché con dubitabile forza impositiva, la cultura, almeno tecnica, che dovrebbe informare l’impianto, l’organizzazione, il funzionamento e gli obiettivi dei nostri musei sia per quanto li accomuna agli istituti di altri Paesi, sia per quanto li caratterizza, a cominciare da quel rapporto con il territorio al quale l’Atto di indirizzo ha voluto dedicare un ottavo ambito non compreso fra le disposizioni di valenza internazionale previste dal codice deontologico dell’ICOM.
2010
9788879704892
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