Il tema dei poteri officio iudicis costituisce prisma di rifrazione di una pluralità di tematiche di fondamentale importanza, riguardanti, tra l’altro, il rapporto Stato-cittadino, le opzioni di epistemologia giudiziaria, il diritto alla prova delle parti, le diverse tipologie di giudizio. Tutti profili, questi, che hanno un prius logico-giuridico, il cui studio costituisce la filigrana del presente lavoro: quando il giudice diventa attore sulla scena probatoria, infatti, a venir messa in discussione è l’idea stessa di giustizia, che ha nel valore dell’imparzialità la sua qualità immanente – traducibile nell’assenza di ogni forma di condizionamento nel momento della decisione – e che esprime il modo di essere dell’organo deputato a renderla. L’impulso probatorio, infatti, può nascondere l’elaborazione, da parte del giudice, di una propria ipotesi di ricostruzione del fatto e la ricerca dei relativi riscontri; atteggiamento psicologico in grado di compromettere la verginità cognitiva al momento della pronuncia sulla res iudicanda. Si deve fissare, quindi, un primo punto fermo: ove ci sia il pericolo che l’esercizio di taluni poteri probatori d’ufficio incrini l’imparzialità, non v’è dubbio che sia a quello e non a questa che si debba rinunciare. In tale ottica, come vedremo, è sempre escluso che vi possa essere spazio per iniziative istruttorie del giudice dirette a fissare il petitum. Eppure, sebbene in potenziale rotta di collisione, l’iniziativa giudiziale in materia di prova e l’imparzialità hanno un comune punto di fuga teleologico: assicurare una “giustizia giusta”. La libertà di giudizio, necessaria e indefettibile, sarebbe mortificata in un sistema nel quale il giudice, consapevole della lacunosità del materiale conoscitivo prodotto e della sua integrabilità, fosse costretto a pronunciarsi sulla base di un quadro probatorio mutilo, per l’interesse, la negligenza, l’accidia o l’incapacità delle parti. Ma, poiché l’iniziativa probatoria può vulnerarne l’obiettività di valutazione, è necessario tener fermo un principio: si deve cercare di conferire all’organo della decisione il massimo dei poteri probatori compatibile con l’irrinunciabile esigenza di non pregiudicarne l’imparzialità. Approccio, questo, che non solo non perde di significato, se riferito ad un sistema – come il nostro – costituzionalmente fondato sul contraddittorio nella formazione della prova, ma che in esso rinviene, anzi, le giuste coordinate operative. Da un lato, infatti, neppure la migliore esplicazione della elaborazione dialettica della prova può, di per sé, in concreto, garantire né che la singola fonte possa sprigionare il suo massimo apporto cognitivo, né che si riescano ad esplorare tutte le risorse probatorie necessarie alla deliberazione: di qui l’esigenza di conferire al giudice il potere di sopperire alle lacune evidenziate dal confronto dialettico, almeno tutte le volte in cui la funzione giurisdizionale mira a tutelare diritti fondamentali (di cui sono portatori sia i singoli che l’intera collettività) sottratti alla libera disponibilità dei contendenti. D’altro canto, il contraddittorio non elimina la necessità di integrare le conoscenze processuali officio iudicis, ma ne perimetra l’ambito esplicativo: esso traccia il confine, valicato il quale l’iniziativa officiosa verrebbe esercitata a scapito dell’imparzialità. Soltanto l’intervento del giudice che tragga causa e limite dalle risultanze dialettiche offerte dalle parti si inscrive all’interno di una prospettiva rispettosa della sua neutralità cognitiva. Delimitata, in questi termini, la cornice di espansione massima dei poteri probatori d’ufficio, risulta utile interrogarsi se questi non vivano una maggiore o minore latitudine a seconda dello specifico munus affidato al giudice. La sua attività, infatti, sembra declinarsi in maniera differente in base agli scopi ad essa connessi. Esiste uno stretto legame funzionale tra proposizione della domanda e intervento dell’organo della giurisdizione: quest’ultimo viene, per sua natura, a modellarsi in relazione al contenuto della prima e al ruolo del soggetto “chiamato in causa”, assegnandogli una sfera di attribuzioni coerente con i compiti cui è deputato. In quest’ottica, si può tentare di aggregare le diverse manifestazioni del fenomeno giurisdizionale attraverso una identica dimensione dei poteri istruttori d’ufficio in rapporto all’imparzialità. L’indagine, quindi, oltre ad avere fulcro nel contesto decisorio in senso proprio – quello, per intenderci, che sfocia nella pronuncia sulla res iudicanda – dove più delicata si fa l’individuazione del punto di equilibrio tra poteri d’iniziativa probatoria del giudice e imparzialità, si propone di distinguere due ulteriori ambiti decisionali, strumentali l’uno alla salvaguardia di beni di rilievo costituzionale, l’altro al controllo sulla legittimità del processo stesso, nei quali sono prefigurabili scenari probatori officiosi di diversa portata, definiti dal tipo di funzione cui viene data attuazione. All’interno di una giurisdizione che consente, ad esempio, limitazioni della libertà personale – più in generale di beni individuali primari – sulla base della sola domanda del pubblico ministero e avvalendosi di elementi di prova unilateralmente procacciati, il ruolo del giudice, rispetto a quello rivestito nel giudizio di merito, si arricchisce di un’ulteriore prospettiva: la consapevolezza del deficit dialettico nel quale versa il titolare del diritto e di cui egli si deve far carico. L’esercizio della potestà cautelare entra in conflitto con diritti fondamentali e pone l’accusato in una posizione di debolezza di fronte all’ordinamento: il limite di garanzie, rappresentato dal minus di difesa che può esercitare, è colmato dall’intervento di tutela del giudice che potrà dirsi efficace nella misura in cui gli sia consentito mettere in campo tutti gli strumenti – anche quelli probatori – necessari per dare effettività ai diritti di libertà. In un ambito, invece, dove la domanda è diretta a “provocare” statuizioni puramente processuali (sull’utilità del giudizio) e che sceglie quale modus procedendi il contraddittorio tra le parti, è preferibile che il giudice si attesti su un atteggiamento di sostanziale inerzia probatoria. Non è necessario “pagare il prezzo” del rischio per l’imparzialità insito nella disponibilità giudiziale della prova: la rinuncia ai poteri ex officio non peserebbe in termini di attuazione della giustizia sostanziale, rappresentando l’epilogo della fase una pronuncia meramente interlocutoria. In sostanza, la maggiore o minore ampiezza dell’intervento istruttorio ope iudicis, seppur non può mai sacrificare l’imparzialità, può, però, denotarla in modi diversi: così, una giurisdizione avente struttura triadica, sia essa “di merito” o “di rito”, vuole un giudice sì imparziale, perché non pregiudicato, ma anche terzo, perché distinto dalle parti, mentre una giurisdizione priva dello schema dialettico rinuncia alla terzietà, all’equidistanza del giudice da accusa e difesa, pur senza rinnegare l’imparzialità. Anzi, questa trova la sua dimensione nella consapevolezza dell’esistenza di uno squilibrio tra i protagonisti del confronto e nella necessità di porvi rimedio.

Poteri d’ufficio in materia probatoria e imparzialità del giudice penale

CARACENI, Lina
2007-01-01

Abstract

Il tema dei poteri officio iudicis costituisce prisma di rifrazione di una pluralità di tematiche di fondamentale importanza, riguardanti, tra l’altro, il rapporto Stato-cittadino, le opzioni di epistemologia giudiziaria, il diritto alla prova delle parti, le diverse tipologie di giudizio. Tutti profili, questi, che hanno un prius logico-giuridico, il cui studio costituisce la filigrana del presente lavoro: quando il giudice diventa attore sulla scena probatoria, infatti, a venir messa in discussione è l’idea stessa di giustizia, che ha nel valore dell’imparzialità la sua qualità immanente – traducibile nell’assenza di ogni forma di condizionamento nel momento della decisione – e che esprime il modo di essere dell’organo deputato a renderla. L’impulso probatorio, infatti, può nascondere l’elaborazione, da parte del giudice, di una propria ipotesi di ricostruzione del fatto e la ricerca dei relativi riscontri; atteggiamento psicologico in grado di compromettere la verginità cognitiva al momento della pronuncia sulla res iudicanda. Si deve fissare, quindi, un primo punto fermo: ove ci sia il pericolo che l’esercizio di taluni poteri probatori d’ufficio incrini l’imparzialità, non v’è dubbio che sia a quello e non a questa che si debba rinunciare. In tale ottica, come vedremo, è sempre escluso che vi possa essere spazio per iniziative istruttorie del giudice dirette a fissare il petitum. Eppure, sebbene in potenziale rotta di collisione, l’iniziativa giudiziale in materia di prova e l’imparzialità hanno un comune punto di fuga teleologico: assicurare una “giustizia giusta”. La libertà di giudizio, necessaria e indefettibile, sarebbe mortificata in un sistema nel quale il giudice, consapevole della lacunosità del materiale conoscitivo prodotto e della sua integrabilità, fosse costretto a pronunciarsi sulla base di un quadro probatorio mutilo, per l’interesse, la negligenza, l’accidia o l’incapacità delle parti. Ma, poiché l’iniziativa probatoria può vulnerarne l’obiettività di valutazione, è necessario tener fermo un principio: si deve cercare di conferire all’organo della decisione il massimo dei poteri probatori compatibile con l’irrinunciabile esigenza di non pregiudicarne l’imparzialità. Approccio, questo, che non solo non perde di significato, se riferito ad un sistema – come il nostro – costituzionalmente fondato sul contraddittorio nella formazione della prova, ma che in esso rinviene, anzi, le giuste coordinate operative. Da un lato, infatti, neppure la migliore esplicazione della elaborazione dialettica della prova può, di per sé, in concreto, garantire né che la singola fonte possa sprigionare il suo massimo apporto cognitivo, né che si riescano ad esplorare tutte le risorse probatorie necessarie alla deliberazione: di qui l’esigenza di conferire al giudice il potere di sopperire alle lacune evidenziate dal confronto dialettico, almeno tutte le volte in cui la funzione giurisdizionale mira a tutelare diritti fondamentali (di cui sono portatori sia i singoli che l’intera collettività) sottratti alla libera disponibilità dei contendenti. D’altro canto, il contraddittorio non elimina la necessità di integrare le conoscenze processuali officio iudicis, ma ne perimetra l’ambito esplicativo: esso traccia il confine, valicato il quale l’iniziativa officiosa verrebbe esercitata a scapito dell’imparzialità. Soltanto l’intervento del giudice che tragga causa e limite dalle risultanze dialettiche offerte dalle parti si inscrive all’interno di una prospettiva rispettosa della sua neutralità cognitiva. Delimitata, in questi termini, la cornice di espansione massima dei poteri probatori d’ufficio, risulta utile interrogarsi se questi non vivano una maggiore o minore latitudine a seconda dello specifico munus affidato al giudice. La sua attività, infatti, sembra declinarsi in maniera differente in base agli scopi ad essa connessi. Esiste uno stretto legame funzionale tra proposizione della domanda e intervento dell’organo della giurisdizione: quest’ultimo viene, per sua natura, a modellarsi in relazione al contenuto della prima e al ruolo del soggetto “chiamato in causa”, assegnandogli una sfera di attribuzioni coerente con i compiti cui è deputato. In quest’ottica, si può tentare di aggregare le diverse manifestazioni del fenomeno giurisdizionale attraverso una identica dimensione dei poteri istruttori d’ufficio in rapporto all’imparzialità. L’indagine, quindi, oltre ad avere fulcro nel contesto decisorio in senso proprio – quello, per intenderci, che sfocia nella pronuncia sulla res iudicanda – dove più delicata si fa l’individuazione del punto di equilibrio tra poteri d’iniziativa probatoria del giudice e imparzialità, si propone di distinguere due ulteriori ambiti decisionali, strumentali l’uno alla salvaguardia di beni di rilievo costituzionale, l’altro al controllo sulla legittimità del processo stesso, nei quali sono prefigurabili scenari probatori officiosi di diversa portata, definiti dal tipo di funzione cui viene data attuazione. All’interno di una giurisdizione che consente, ad esempio, limitazioni della libertà personale – più in generale di beni individuali primari – sulla base della sola domanda del pubblico ministero e avvalendosi di elementi di prova unilateralmente procacciati, il ruolo del giudice, rispetto a quello rivestito nel giudizio di merito, si arricchisce di un’ulteriore prospettiva: la consapevolezza del deficit dialettico nel quale versa il titolare del diritto e di cui egli si deve far carico. L’esercizio della potestà cautelare entra in conflitto con diritti fondamentali e pone l’accusato in una posizione di debolezza di fronte all’ordinamento: il limite di garanzie, rappresentato dal minus di difesa che può esercitare, è colmato dall’intervento di tutela del giudice che potrà dirsi efficace nella misura in cui gli sia consentito mettere in campo tutti gli strumenti – anche quelli probatori – necessari per dare effettività ai diritti di libertà. In un ambito, invece, dove la domanda è diretta a “provocare” statuizioni puramente processuali (sull’utilità del giudizio) e che sceglie quale modus procedendi il contraddittorio tra le parti, è preferibile che il giudice si attesti su un atteggiamento di sostanziale inerzia probatoria. Non è necessario “pagare il prezzo” del rischio per l’imparzialità insito nella disponibilità giudiziale della prova: la rinuncia ai poteri ex officio non peserebbe in termini di attuazione della giustizia sostanziale, rappresentando l’epilogo della fase una pronuncia meramente interlocutoria. In sostanza, la maggiore o minore ampiezza dell’intervento istruttorio ope iudicis, seppur non può mai sacrificare l’imparzialità, può, però, denotarla in modi diversi: così, una giurisdizione avente struttura triadica, sia essa “di merito” o “di rito”, vuole un giudice sì imparziale, perché non pregiudicato, ma anche terzo, perché distinto dalle parti, mentre una giurisdizione priva dello schema dialettico rinuncia alla terzietà, all’equidistanza del giudice da accusa e difesa, pur senza rinnegare l’imparzialità. Anzi, questa trova la sua dimensione nella consapevolezza dell’esistenza di uno squilibrio tra i protagonisti del confronto e nella necessità di porvi rimedio.
2007
9788814133961
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