Il corpo sembra essere animato da una particolare dialettica, da una sorta di interna e paradossale duplicità, tale perché si tratta del porsi continuo di due modi di cogliere il medesimo corpo. Nel ventesimo secolo, è noto il suo essere stato individuato da Edmund Husserl come Körper e Leib, ossia corpo fisico e corpo organico vivente, quest’ultimo detto anche corpo vissuto . Mi pare che tale distinzione abbia condotto virtuosamente la filosofia al di là dell’identificazione del corpo con una sorta di macchina, come lo pensava il medico-filosofo francese La Mettrie. Infatti, per la medicina del sei-settecento e, in generale, per quegli scienziati-filosofi noti come Idéologues, il corpo era una macchina perfettamente conoscibile nel suo funzionamento e, dunque, guaribile e sanabile fino a quando (come ogni meccanismo) non avrebbe concluso ed esaurito il suo corso. Quest’ipotesi scientifica del corpo era stata maturata e proposta nell’abito della cosiddetta “science de l’homme”, che definirei l’antesignana (antitetica) dell’antropologia . È a questa visione che si oppone quella che non intende il corpo soltanto come scheletro, polmoni, consumazione di ossigeno, sangue: il corpo è anche (o forse, soprattutto) corpo vivente con il quale attraversiamo il mondo; è il nostro corpo. Il nostro corpo, ossia ciò con cui viviamo la nostra condizione umana, come ha ben colto Luciano Manicardi quando scrive che «vivere la condizione umana (è) vivere la corporeità» e «nell’economia cristiana il corpo non è fardello fastidioso ma responsabilità che personalizza» . Manicardi, poi, prosegue osservando che «il corpo che noi siamo, ma che non viene da noi, è la nostra in-scrizione originaria nel senso della vita. […] Nel corpo che mi accomuna a ogni uomo e al tempo stesso mi personalizza, proprio lì è incisa la mia unicità, la mia irripetibilità, ma anche la mia chiamata ad esistere con gli altri: il corpo è appello e memoriale della vocazione di ogni uomo alla libertà e alla responsabilità» . Non soltanto “macchina”, dunque, il corpo è un compito «assegnato all’uomo» ; di più, esso ha direttamente a che fare con la “persona umana”, e parlare di corporeità significa indicare la totalità del soggetto umano, la sua integralità. Dunque, la dialettica da cui sono partita caratterizza “in proprio” il corpo. Ne riprendo, allora, la configurazione. Il Leib, corpo vivente è quel corpo che appartiene in proprio all’io, alla sua sfera appartentiva, quel corpo che fa definire l’io come unità psico-fisica . Anche questa è un’idea non nuova e già un filosofo vissuto tra il XVIII e il XIX secolo, Maine de Biran, contro Descartes e la nota distinzione tra anima e corpo, sosteneva che il principio di individualità, ossia la coscienza, sorgeva nell’uomo (che nasce come pura vitalità corporea e non autocosciente), unitamente alla capacità di percepire la resistenza esterna. La coscienza è, cioè, effort, insieme di forza spirituale e “corpo proprio”. La personalità, la persona, sosteneva Maine de Biran, non nasce senza il corpo, non è puro atto spirituale: è insieme corpo proprio ed esprit, ossia è insieme corpo e mente, dove il corpo proprio è l’insieme degli atti sottoposti al potere dell’io. Il filosofo francese, interessato alla medicina, propendeva decisamente per il “tener insieme” i due elementi del corpo, quello fisico e quello vivente, percepito, giacché la distinzione tra i due si segnala come livelli diversi di corporeità: esiste una corporeità totalmente passiva (ad esempio gli stati di sonno, che Maine de Biran chiama “percezioni oscure”) e la corporeità suddetta, quella “propria”. In che modo, tuttavia, questi diversi livelli di corporeità emergono? Tale complessità dell’uomo, Maine de Biran l’aveva appresa grazie alla medicina e alle note di alcuni medici dell’epoca che curavano emiplegici. Senza dilungarmi su questo tema, mi limito ad osservare che l’unità del corporeo dell’uomo, l’elemento unificante la dialettica umana è rivelata dall’osservazione medica finalizzata alla cura. Il corpo rivela la propria dialettica, cioè, mentre è curato. Questa via, però, è stata abbandonata dalla filosofia e, anzi, proprio la differenza tra Körper e Leib è esito di una pur interessante “riduzione fenomenologica”, il che ha segnato la riflessione filosofica sul corpo assegnando una sorta di “primato”, foss’anche tacito, all’invisibile carne che si mostra versus un’oggettività corporea il cui ruolo è certamente meno rilevante rispetto a quello della carne vivente, altra traduzione di Leib . Compiendo questa scelta, però, s’intraprende una via opposta a quella segnalata da Manicardi, che ribadiva la centralità del corpo nella “responsabilità che personalizza”. Infatti, sebbene in modi diversi, la pur virtuosa individuazione di una dialettica del corpo conduce ad una spiritualizzazione dello stesso: la carne vivente, il corpo organico vivente è di fatto quello che del corpo non si vede, ciò che mi permette di sentire, che mi lega in questo sentire al mondo. Nulla di male, in tutto ciò, se tuttavia il diverso modo di intendere i due elementi della dialettica – che per brevità indicherò con corpo visibile e corpo invisibile – non portasse talvolta ad un’opposizione dei due elementi, delegittimando il primo e privilegiando il secondo. Privilegio che corrisponde a quella sorta di spiritualizzazione del corpo sopra detta. Pur ponendo, dunque, l’io come unità psico-fisica, la filosofia – partendo dal pensare l’io come incarnato – ha finito col pensare un corpo spiritualizzato privilegiandone la dimensione invisibile. Operazione che affonda le sue radici nel mondo greco, che ha pensato una certa sottomissione del corpo all’anima per poi dare da pensare, nella modernità, la separazione di mente, coscienza, anima e corpo, quasi che il corpo fosse soltanto l’elemento destinato alla mortalità e caducità. Un paradigma greco, questo, di fatto mai messo in discussione, inaugurato certamente da Platone, con la drastica separazione di anima e corpo, e che non viene discusso neppure da Aristotele e Ippocrate, tanto da essere alla base della teoria chiamata “fisiognomica”, termine coniato dall’unione di physis-onoma e basato sulla rigorosa corrispondenza tra soma e psiche. Anche qui si tratta di una teoria psico-fisica, dove il primato spetta all’elemento psichico cui il corpo corrisponde dandosi a conoscere «attraverso l’onnipotenza del logos» . Ciò detto, da dove ripartire per pensare il corpo come tale, non a partire dalla coscienza o dell’io ma viceversa, per tornare alla coscienza dal corpo? Come ripensare, senza partire dal primato della coscienza, quanto osservato da Manicardi, ossia il fatto che «nel corpo che mi accomuna a ogni uomo e al tempo stesso mi personalizza, proprio lì è incisa la mia unicità, la mia irripetibilità, ma anche la mia chiamata ad esistere con gli altri, grazie agli altri e per altri: il corpo è appello e memoriale della vocazione di ogni uomo alla libertà e alla responsabilità» ? Una delle possibili sfide che oggi attende la filosofia non è tanto il concepire la dinamica interna del corpo stesso, che sia soltanto fisico o organico e vivente, che sia specchio dell’anima o cuore dell’unità psico-fisica che ciascuno è; il punto della questione mi pare sia quella dialettica che il corpo stesso è. Con ciò intendo la capacità di mutare del corpo e del suo incessante rivelarsi che lo sottrae alla delegittimazione della sua visibilità cercando, invece, di cogliere in questa un di più che la trapassa; anzi, che la fa visibile come tale, che ne permette il mostrarsi sempre nuovo e diverso ma nella sua fisicità vivente e visibile. Detto altrimenti, il mostrarsi stesso del corpo, il suo farsi visibile è dialettica nella quale il visibile mostrandosi si fa e consegna incessantemente diverso da ciò che è. Il corpo non è “macchina” che ha le proprie leggi, in virtù delle quali nasce, cresce e muore; non è (ma direi che nessun vivente lo è!) un “dato compiuto” ma accade, si dà, si mostra nella cura e nei rapporti; si mostra e si fa vedere in questo rapporto nel quale “è”, nel quale si implica come corpo fisico e visibile. Il che è testimoniato in culture altre dalla nostra, dove il corpo visibile non è affatto delegittimato a vantaggio della sua invisibilità vivente e senziente.
Dialettiche del corpo e della coscienza nella persona umana
CANULLO, Carla
2009-01-01
Abstract
Il corpo sembra essere animato da una particolare dialettica, da una sorta di interna e paradossale duplicità, tale perché si tratta del porsi continuo di due modi di cogliere il medesimo corpo. Nel ventesimo secolo, è noto il suo essere stato individuato da Edmund Husserl come Körper e Leib, ossia corpo fisico e corpo organico vivente, quest’ultimo detto anche corpo vissuto . Mi pare che tale distinzione abbia condotto virtuosamente la filosofia al di là dell’identificazione del corpo con una sorta di macchina, come lo pensava il medico-filosofo francese La Mettrie. Infatti, per la medicina del sei-settecento e, in generale, per quegli scienziati-filosofi noti come Idéologues, il corpo era una macchina perfettamente conoscibile nel suo funzionamento e, dunque, guaribile e sanabile fino a quando (come ogni meccanismo) non avrebbe concluso ed esaurito il suo corso. Quest’ipotesi scientifica del corpo era stata maturata e proposta nell’abito della cosiddetta “science de l’homme”, che definirei l’antesignana (antitetica) dell’antropologia . È a questa visione che si oppone quella che non intende il corpo soltanto come scheletro, polmoni, consumazione di ossigeno, sangue: il corpo è anche (o forse, soprattutto) corpo vivente con il quale attraversiamo il mondo; è il nostro corpo. Il nostro corpo, ossia ciò con cui viviamo la nostra condizione umana, come ha ben colto Luciano Manicardi quando scrive che «vivere la condizione umana (è) vivere la corporeità» e «nell’economia cristiana il corpo non è fardello fastidioso ma responsabilità che personalizza» . Manicardi, poi, prosegue osservando che «il corpo che noi siamo, ma che non viene da noi, è la nostra in-scrizione originaria nel senso della vita. […] Nel corpo che mi accomuna a ogni uomo e al tempo stesso mi personalizza, proprio lì è incisa la mia unicità, la mia irripetibilità, ma anche la mia chiamata ad esistere con gli altri: il corpo è appello e memoriale della vocazione di ogni uomo alla libertà e alla responsabilità» . Non soltanto “macchina”, dunque, il corpo è un compito «assegnato all’uomo» ; di più, esso ha direttamente a che fare con la “persona umana”, e parlare di corporeità significa indicare la totalità del soggetto umano, la sua integralità. Dunque, la dialettica da cui sono partita caratterizza “in proprio” il corpo. Ne riprendo, allora, la configurazione. Il Leib, corpo vivente è quel corpo che appartiene in proprio all’io, alla sua sfera appartentiva, quel corpo che fa definire l’io come unità psico-fisica . Anche questa è un’idea non nuova e già un filosofo vissuto tra il XVIII e il XIX secolo, Maine de Biran, contro Descartes e la nota distinzione tra anima e corpo, sosteneva che il principio di individualità, ossia la coscienza, sorgeva nell’uomo (che nasce come pura vitalità corporea e non autocosciente), unitamente alla capacità di percepire la resistenza esterna. La coscienza è, cioè, effort, insieme di forza spirituale e “corpo proprio”. La personalità, la persona, sosteneva Maine de Biran, non nasce senza il corpo, non è puro atto spirituale: è insieme corpo proprio ed esprit, ossia è insieme corpo e mente, dove il corpo proprio è l’insieme degli atti sottoposti al potere dell’io. Il filosofo francese, interessato alla medicina, propendeva decisamente per il “tener insieme” i due elementi del corpo, quello fisico e quello vivente, percepito, giacché la distinzione tra i due si segnala come livelli diversi di corporeità: esiste una corporeità totalmente passiva (ad esempio gli stati di sonno, che Maine de Biran chiama “percezioni oscure”) e la corporeità suddetta, quella “propria”. In che modo, tuttavia, questi diversi livelli di corporeità emergono? Tale complessità dell’uomo, Maine de Biran l’aveva appresa grazie alla medicina e alle note di alcuni medici dell’epoca che curavano emiplegici. Senza dilungarmi su questo tema, mi limito ad osservare che l’unità del corporeo dell’uomo, l’elemento unificante la dialettica umana è rivelata dall’osservazione medica finalizzata alla cura. Il corpo rivela la propria dialettica, cioè, mentre è curato. Questa via, però, è stata abbandonata dalla filosofia e, anzi, proprio la differenza tra Körper e Leib è esito di una pur interessante “riduzione fenomenologica”, il che ha segnato la riflessione filosofica sul corpo assegnando una sorta di “primato”, foss’anche tacito, all’invisibile carne che si mostra versus un’oggettività corporea il cui ruolo è certamente meno rilevante rispetto a quello della carne vivente, altra traduzione di Leib . Compiendo questa scelta, però, s’intraprende una via opposta a quella segnalata da Manicardi, che ribadiva la centralità del corpo nella “responsabilità che personalizza”. Infatti, sebbene in modi diversi, la pur virtuosa individuazione di una dialettica del corpo conduce ad una spiritualizzazione dello stesso: la carne vivente, il corpo organico vivente è di fatto quello che del corpo non si vede, ciò che mi permette di sentire, che mi lega in questo sentire al mondo. Nulla di male, in tutto ciò, se tuttavia il diverso modo di intendere i due elementi della dialettica – che per brevità indicherò con corpo visibile e corpo invisibile – non portasse talvolta ad un’opposizione dei due elementi, delegittimando il primo e privilegiando il secondo. Privilegio che corrisponde a quella sorta di spiritualizzazione del corpo sopra detta. Pur ponendo, dunque, l’io come unità psico-fisica, la filosofia – partendo dal pensare l’io come incarnato – ha finito col pensare un corpo spiritualizzato privilegiandone la dimensione invisibile. Operazione che affonda le sue radici nel mondo greco, che ha pensato una certa sottomissione del corpo all’anima per poi dare da pensare, nella modernità, la separazione di mente, coscienza, anima e corpo, quasi che il corpo fosse soltanto l’elemento destinato alla mortalità e caducità. Un paradigma greco, questo, di fatto mai messo in discussione, inaugurato certamente da Platone, con la drastica separazione di anima e corpo, e che non viene discusso neppure da Aristotele e Ippocrate, tanto da essere alla base della teoria chiamata “fisiognomica”, termine coniato dall’unione di physis-onoma e basato sulla rigorosa corrispondenza tra soma e psiche. Anche qui si tratta di una teoria psico-fisica, dove il primato spetta all’elemento psichico cui il corpo corrisponde dandosi a conoscere «attraverso l’onnipotenza del logos» . Ciò detto, da dove ripartire per pensare il corpo come tale, non a partire dalla coscienza o dell’io ma viceversa, per tornare alla coscienza dal corpo? Come ripensare, senza partire dal primato della coscienza, quanto osservato da Manicardi, ossia il fatto che «nel corpo che mi accomuna a ogni uomo e al tempo stesso mi personalizza, proprio lì è incisa la mia unicità, la mia irripetibilità, ma anche la mia chiamata ad esistere con gli altri, grazie agli altri e per altri: il corpo è appello e memoriale della vocazione di ogni uomo alla libertà e alla responsabilità» ? Una delle possibili sfide che oggi attende la filosofia non è tanto il concepire la dinamica interna del corpo stesso, che sia soltanto fisico o organico e vivente, che sia specchio dell’anima o cuore dell’unità psico-fisica che ciascuno è; il punto della questione mi pare sia quella dialettica che il corpo stesso è. Con ciò intendo la capacità di mutare del corpo e del suo incessante rivelarsi che lo sottrae alla delegittimazione della sua visibilità cercando, invece, di cogliere in questa un di più che la trapassa; anzi, che la fa visibile come tale, che ne permette il mostrarsi sempre nuovo e diverso ma nella sua fisicità vivente e visibile. Detto altrimenti, il mostrarsi stesso del corpo, il suo farsi visibile è dialettica nella quale il visibile mostrandosi si fa e consegna incessantemente diverso da ciò che è. Il corpo non è “macchina” che ha le proprie leggi, in virtù delle quali nasce, cresce e muore; non è (ma direi che nessun vivente lo è!) un “dato compiuto” ma accade, si dà, si mostra nella cura e nei rapporti; si mostra e si fa vedere in questo rapporto nel quale “è”, nel quale si implica come corpo fisico e visibile. Il che è testimoniato in culture altre dalla nostra, dove il corpo visibile non è affatto delegittimato a vantaggio della sua invisibilità vivente e senziente.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.