Il saggio scaturisce dall’intervento presentato a un seminario interdisciplinare sulla scrittura della diaspora organizzato da Franca Sinopoli all’Università “La Sapienza”, Roma, nel 2008. Creolizzazione, transculturazione, ibridità, migrazione, diaspora sono termini che descrivono i tentativi di categorizzazione dei movimenti forzati di massa della modernità, dalla tratta transatlantica degli schiavi africani fino al Ventunesimo secolo, e dei loro effetti. Le zone di contatto circumatlantiche e mediterranee generate da tali movimenti trascendono però il paradigma dell’‘Atlantico nero’ sostanzialmente anglofono e angloamericano di Paul Gilroy. Mediando tra Gilroy e Stuart Hall, Brent Hayes Edwards ha proposto una definizione della diaspora come processo di articolazione: una pratica ossimorica che connette tramite distanze e differenze, enfatizzando operazioni e i tentativi di traduzione, sia linguistica sia culturale. Gli studi sulle diaspore potrebbero concentrarsi allora non tanto sul risultato, quanto sulle pratiche di traduzione delle differenze, dei residui, sulle ineliminabili distanze, sugli spazi e gli scarti che consentono però, con le articolazioni tra le giunture, il movimento del corpo. La storia recente di Haiti è caratterizzata da un paradigma costante, evocato dal termine creolo haitiano dechoucaj (sradicamento): la sistematica distruzione di servizi, edifici, diritti (alla scuola, alla sanità, all’informazione), del diritto alla vita: i rapimenti, gli omicidi, il costante ricorso alla tortura. La scrittrice contemporanea haitiano americana Edwidge Danticat riesce nel difficile compito di narrare una comunità diasporica frammentata, divisa già all’origine, nella madrepatria, e traumatizzata fisicamente e psicologicamente dalla tortura. The Dew Breaker, il suo ultimo romanzo (2004), diviso in capitoli indipendenti ma collegati tra loro, offre un modello narrativo importante, che, muovendosi tra verità storica e personale e verità romanzesca, rappresenta l’indicibile. L’indicibile di Danticat non è una categoria astratta o una vuota formula postmoderna: ciò che può essere raccontato sono le assenze che, narrate attraverso le voci e i punti di vista dei personaggi di The Dew Breaker, evocano un limbo quotidiano e verosimile: la sospensione, per nulla liberatoria, di diritti, tra realtà, luoghi, reali, della memoria e immaginari (Haiti, Port-au-Prince, Stati Uniti, New York, Brooklyn, Queens, Florida, Cuba, Jamaica; Jacmel, Grand Goave, Manhattan, l’antico Egitto, l’Africa), e lingue (inglese americano, inglese haitiano, francese, creolo haitiano, Black English). I silenzi, i segreti, i tentativi di colmare le distanze, ricostruire relazioni intime, amicali, sociali e famigliari distrutte dalla diaspora, dagli omicidi, dalla tortura. Ciò che può essere rappresentato è il ritorno: non il ritorno al luogo dell’origine, ma lo scarto tra storia, ricordo, memoria e realtà, tra persone, lingue e luoghi che accompagna i ritorni nella madrepatria. La madrepatria, il luogo che l’emigrato ha in sé quando lascia Haiti, non coincide mai con la realtà dinamica (e violenta), reale, che a ogni ritorno egli cerca di riconoscere e da cui vorrebbe farsi riconoscere. Chi emigra, e ritorna, subisce una doppia perdita, perché è stato espatriato due volte: la prima dalla madrepatria, la seconda dalla terra d’adozione. Dove però c’è perdita, come nella traduzione, c’è talvolta compensazione: i ritorni e la mancata agnizione tra emigrato e madrepatria aprono a una ricerca e ricostruzione dinamica delle origini, liberando il paese di partenza – la madre simbolica – da una stasi obbligata. Tornare sui propri passi è possibile, a patto di accettare ogni volta il dolore, la distanza, le differenze, la fatica di ricordare, riconoscere e farsi riconoscere. The Dew Breaker fornisce un modello formale significativo per la letteratura della diaspora perché riesce a narrare, e a comunicare, ciò che manca ma che può e deve essere raccontato.
“Traduzione di un’identità mancante: The Dew Breaker di Edwidge Danticat”
PETROVICH NJEGOSH, Tatiana
2009-01-01
Abstract
Il saggio scaturisce dall’intervento presentato a un seminario interdisciplinare sulla scrittura della diaspora organizzato da Franca Sinopoli all’Università “La Sapienza”, Roma, nel 2008. Creolizzazione, transculturazione, ibridità, migrazione, diaspora sono termini che descrivono i tentativi di categorizzazione dei movimenti forzati di massa della modernità, dalla tratta transatlantica degli schiavi africani fino al Ventunesimo secolo, e dei loro effetti. Le zone di contatto circumatlantiche e mediterranee generate da tali movimenti trascendono però il paradigma dell’‘Atlantico nero’ sostanzialmente anglofono e angloamericano di Paul Gilroy. Mediando tra Gilroy e Stuart Hall, Brent Hayes Edwards ha proposto una definizione della diaspora come processo di articolazione: una pratica ossimorica che connette tramite distanze e differenze, enfatizzando operazioni e i tentativi di traduzione, sia linguistica sia culturale. Gli studi sulle diaspore potrebbero concentrarsi allora non tanto sul risultato, quanto sulle pratiche di traduzione delle differenze, dei residui, sulle ineliminabili distanze, sugli spazi e gli scarti che consentono però, con le articolazioni tra le giunture, il movimento del corpo. La storia recente di Haiti è caratterizzata da un paradigma costante, evocato dal termine creolo haitiano dechoucaj (sradicamento): la sistematica distruzione di servizi, edifici, diritti (alla scuola, alla sanità, all’informazione), del diritto alla vita: i rapimenti, gli omicidi, il costante ricorso alla tortura. La scrittrice contemporanea haitiano americana Edwidge Danticat riesce nel difficile compito di narrare una comunità diasporica frammentata, divisa già all’origine, nella madrepatria, e traumatizzata fisicamente e psicologicamente dalla tortura. The Dew Breaker, il suo ultimo romanzo (2004), diviso in capitoli indipendenti ma collegati tra loro, offre un modello narrativo importante, che, muovendosi tra verità storica e personale e verità romanzesca, rappresenta l’indicibile. L’indicibile di Danticat non è una categoria astratta o una vuota formula postmoderna: ciò che può essere raccontato sono le assenze che, narrate attraverso le voci e i punti di vista dei personaggi di The Dew Breaker, evocano un limbo quotidiano e verosimile: la sospensione, per nulla liberatoria, di diritti, tra realtà, luoghi, reali, della memoria e immaginari (Haiti, Port-au-Prince, Stati Uniti, New York, Brooklyn, Queens, Florida, Cuba, Jamaica; Jacmel, Grand Goave, Manhattan, l’antico Egitto, l’Africa), e lingue (inglese americano, inglese haitiano, francese, creolo haitiano, Black English). I silenzi, i segreti, i tentativi di colmare le distanze, ricostruire relazioni intime, amicali, sociali e famigliari distrutte dalla diaspora, dagli omicidi, dalla tortura. Ciò che può essere rappresentato è il ritorno: non il ritorno al luogo dell’origine, ma lo scarto tra storia, ricordo, memoria e realtà, tra persone, lingue e luoghi che accompagna i ritorni nella madrepatria. La madrepatria, il luogo che l’emigrato ha in sé quando lascia Haiti, non coincide mai con la realtà dinamica (e violenta), reale, che a ogni ritorno egli cerca di riconoscere e da cui vorrebbe farsi riconoscere. Chi emigra, e ritorna, subisce una doppia perdita, perché è stato espatriato due volte: la prima dalla madrepatria, la seconda dalla terra d’adozione. Dove però c’è perdita, come nella traduzione, c’è talvolta compensazione: i ritorni e la mancata agnizione tra emigrato e madrepatria aprono a una ricerca e ricostruzione dinamica delle origini, liberando il paese di partenza – la madre simbolica – da una stasi obbligata. Tornare sui propri passi è possibile, a patto di accettare ogni volta il dolore, la distanza, le differenze, la fatica di ricordare, riconoscere e farsi riconoscere. The Dew Breaker fornisce un modello formale significativo per la letteratura della diaspora perché riesce a narrare, e a comunicare, ciò che manca ma che può e deve essere raccontato.File | Dimensione | Formato | |
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