Utilizzando fonti a stampa, in particolare riviste e giornali ‘professionali’, questo studio ricostruisce la storia dei sistemi calzaturieri italiani, nel periodo che va dalla fine del XIX secolo al 1970, mettendo in rilievo i mutamenti tecnologici e produttivi e le condizioni esterne e interne che ne hanno determinato la diversa dinamica. Lo scopo di tracciare una storia di questa industria che desse maggiormente conto dell’importanza dei sistemi locali, ci pare sia stato raggiunto; la ricerca ha dimostrato, fra l’altro, che i distretti non si sono formati dopo la seconda guerra mondiale, come a lungo hanno sostenuto gli economisti, anche se in Italia sono sorti più tardi che in altre nazioni nelle quali vi fu un forte aumento dei consumi nel corso del XIX secolo, come ad esempio gli Stati Uniti, dove nel 1860 il 60% degli addetti e della produzione calzaturiera nazionale si addensavano nelle cittadine calzaturiere del Massachusetts. Fra la fine dell’800 e la prima guerra mondiale, quando la crescita della domanda sollecitò il passaggio dall’artigianato al sistema di fabbrica, calzaturifici ‘isolati’ vennero sorgendo in molte città del nord dell’Italia ma si formarono anche numerose agglomerazioni produttive, più o meno importanti, in una serie di cittadine lombarde poste lungo due linee ferroviarie o a brevissima distanza da esse : Legnano, Busto Arsizio, Gallarate, San Vittore Olona, Varese, e altre (lungo la Milano-Domodossola- Varese) e Vigevano (Milano-Alessandria). In questi nodi minori di una rete ad alto potenziale urbano, l’industria calzaturiera non ebbe carattere di ‘monocoltura’ ma affiancò altre attività manifatturiere (tessili, meccaniche etc.); gli imprenditori, tutti ‘del mestiere’ (artigiani-negozianti, manifattori, commercianti di pellami e calzature, pochi conciatori), poterono avvalersi di un ambiente industriale dotato di infrastrutture, in grado di fornire energia, materiali, servizi, apporti tecnici e finanziari, diversamente da quel che accadde in piccoli centri e aree di produzione artigianal-manifatturiera, posti in zone rurali o periferiche, nei quali l’organizzazione produttiva non mutò, come a San Mauro Pascoli e Montebelluna, dove dalla fine dell’’800 si producevano scarpe pesanti, o nell’area marchigiana, nella quale la manifattura di scarpe economiche in pelle affiancò quella antica delle pantofole. Nel periodo tra le due guerre quando la domanda crebbe, se pure a ritmi contenuti, e la bilancia commerciale calzaturiera divenne positiva, il tessuto industriale dei sistemi calzaturieri lombardi si irrobustì decisamente, nei singoli centri si delineò una netta specializzazione per tipo, genere o qualità di prodotto, e sorsero, in maggiore o minor misura, le ‘nuove appendici’ degli stabilimenti, come esemplarmente mostra il caso di Vigevano. Nel principale distretto calzaturiero italiano operavano infatti non solo numerosissimi calzaturifici, grandi e piccoli, ma anche molte aziende che producevano parti o accessori, che svolgevano fasi oppure offrivano servizi, senza contare le concerie, le numerose officine meccano-calzaturiere e i grandi stabilimenti di calzature e suole in gomma. Il miglioramento dei trasporti, la maggiore disponibilità di energia, contatti con produttori di centri maggiori e altri elementi, che variano da caso a caso, favorirono infine la transizione dalla manifattura alla fabbrica, ancorché parziale, nelle aree periferiche: a San Mauro Pascoli, a Montebelluna e nelle Marche, mentre in Toscana e nella Riviera del Brenta e a Ravenna, la gemmazione di piccole imprese da fabbriche “incubatrici”, infittì il numero delle aziende, dei laboratori e dei calzolai a domicilio. I sistemi locali che ‘esploderanno’ nell’età dell’oro sono dunque già stabiliti, ad essi come ai distretti di più antica costituzione dedica una serie di rassegne la stampa professionale, attenta nel segnalarne la specializzazione per tipo di prodotto. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’incremento dei consumi e soprattutto delle esportazioni, unitamente alla modificazione della domanda , provocano una fortissima crescita dei sistemi locali, soprattutto di quelli posti in aree rurali (Toscana, Riviera del Brenta, Marche San Mauro etc.), dove vi è un’abbondante offerta di manodopera, bassa sindacalizzazione, scarse o nulle opportunità di impieghi alternativi e dove le amministrazioni locali si mobilitano per sostenere l’unica industria presente, istituendo scuole professionali e organizzando mostre. A Vigevano, che esemplifica la sorte dei distretti lombardi, già negli anni ‘50 l’industria calzaturiera cresce assai meno che nelle zone ‘periferiche’ e negli anni ’60 declina anche per l’attrazione esercitata dalla più dinamica lavorazione di macchine per calzaturifici.
Industria e territori. La produzione di calzature in Italia (1890-1970)
SABBATUCCI SEVERINI, Patrizia
2007-01-01
Abstract
Utilizzando fonti a stampa, in particolare riviste e giornali ‘professionali’, questo studio ricostruisce la storia dei sistemi calzaturieri italiani, nel periodo che va dalla fine del XIX secolo al 1970, mettendo in rilievo i mutamenti tecnologici e produttivi e le condizioni esterne e interne che ne hanno determinato la diversa dinamica. Lo scopo di tracciare una storia di questa industria che desse maggiormente conto dell’importanza dei sistemi locali, ci pare sia stato raggiunto; la ricerca ha dimostrato, fra l’altro, che i distretti non si sono formati dopo la seconda guerra mondiale, come a lungo hanno sostenuto gli economisti, anche se in Italia sono sorti più tardi che in altre nazioni nelle quali vi fu un forte aumento dei consumi nel corso del XIX secolo, come ad esempio gli Stati Uniti, dove nel 1860 il 60% degli addetti e della produzione calzaturiera nazionale si addensavano nelle cittadine calzaturiere del Massachusetts. Fra la fine dell’800 e la prima guerra mondiale, quando la crescita della domanda sollecitò il passaggio dall’artigianato al sistema di fabbrica, calzaturifici ‘isolati’ vennero sorgendo in molte città del nord dell’Italia ma si formarono anche numerose agglomerazioni produttive, più o meno importanti, in una serie di cittadine lombarde poste lungo due linee ferroviarie o a brevissima distanza da esse : Legnano, Busto Arsizio, Gallarate, San Vittore Olona, Varese, e altre (lungo la Milano-Domodossola- Varese) e Vigevano (Milano-Alessandria). In questi nodi minori di una rete ad alto potenziale urbano, l’industria calzaturiera non ebbe carattere di ‘monocoltura’ ma affiancò altre attività manifatturiere (tessili, meccaniche etc.); gli imprenditori, tutti ‘del mestiere’ (artigiani-negozianti, manifattori, commercianti di pellami e calzature, pochi conciatori), poterono avvalersi di un ambiente industriale dotato di infrastrutture, in grado di fornire energia, materiali, servizi, apporti tecnici e finanziari, diversamente da quel che accadde in piccoli centri e aree di produzione artigianal-manifatturiera, posti in zone rurali o periferiche, nei quali l’organizzazione produttiva non mutò, come a San Mauro Pascoli e Montebelluna, dove dalla fine dell’’800 si producevano scarpe pesanti, o nell’area marchigiana, nella quale la manifattura di scarpe economiche in pelle affiancò quella antica delle pantofole. Nel periodo tra le due guerre quando la domanda crebbe, se pure a ritmi contenuti, e la bilancia commerciale calzaturiera divenne positiva, il tessuto industriale dei sistemi calzaturieri lombardi si irrobustì decisamente, nei singoli centri si delineò una netta specializzazione per tipo, genere o qualità di prodotto, e sorsero, in maggiore o minor misura, le ‘nuove appendici’ degli stabilimenti, come esemplarmente mostra il caso di Vigevano. Nel principale distretto calzaturiero italiano operavano infatti non solo numerosissimi calzaturifici, grandi e piccoli, ma anche molte aziende che producevano parti o accessori, che svolgevano fasi oppure offrivano servizi, senza contare le concerie, le numerose officine meccano-calzaturiere e i grandi stabilimenti di calzature e suole in gomma. Il miglioramento dei trasporti, la maggiore disponibilità di energia, contatti con produttori di centri maggiori e altri elementi, che variano da caso a caso, favorirono infine la transizione dalla manifattura alla fabbrica, ancorché parziale, nelle aree periferiche: a San Mauro Pascoli, a Montebelluna e nelle Marche, mentre in Toscana e nella Riviera del Brenta e a Ravenna, la gemmazione di piccole imprese da fabbriche “incubatrici”, infittì il numero delle aziende, dei laboratori e dei calzolai a domicilio. I sistemi locali che ‘esploderanno’ nell’età dell’oro sono dunque già stabiliti, ad essi come ai distretti di più antica costituzione dedica una serie di rassegne la stampa professionale, attenta nel segnalarne la specializzazione per tipo di prodotto. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’incremento dei consumi e soprattutto delle esportazioni, unitamente alla modificazione della domanda , provocano una fortissima crescita dei sistemi locali, soprattutto di quelli posti in aree rurali (Toscana, Riviera del Brenta, Marche San Mauro etc.), dove vi è un’abbondante offerta di manodopera, bassa sindacalizzazione, scarse o nulle opportunità di impieghi alternativi e dove le amministrazioni locali si mobilitano per sostenere l’unica industria presente, istituendo scuole professionali e organizzando mostre. A Vigevano, che esemplifica la sorte dei distretti lombardi, già negli anni ‘50 l’industria calzaturiera cresce assai meno che nelle zone ‘periferiche’ e negli anni ’60 declina anche per l’attrazione esercitata dalla più dinamica lavorazione di macchine per calzaturifici.File | Dimensione | Formato | |
---|---|---|---|
DistrettiItalia.pdf
accesso aperto
Tipologia:
Documento in post-print (versione successiva alla peer review e accettata per la pubblicazione)
Licenza:
DRM non definito
Dimensione
1.17 MB
Formato
Adobe PDF
|
1.17 MB | Adobe PDF | Visualizza/Apri |
I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.