Nei paesi dell’Europa mediterranea, di cui l’Italia fa parte, l’andamento della partecipazione femminile al mercato del lavoro si collega in modo peculiare alla questione del declino della fecondità. Questi ambiti territoriali costituiscono un caso particolare, dal momento che il nesso causale tra i fenomeni assume una direzione opposta rispetto a quanto si rileva nei paesi del Nord Europa e negli Stati Uniti. E la relazione tra i due fattori va interpretata secondo modalità assai più complesse rispetto ad una semplice incompatibilità tra i ruoli delle donne che sono anche madri. Come emerge da molti riscontri empirici, non è scontato che ad un incrementato livello del lavoro extradomestico delle donne faccia seguito un corrispondente declino nel numero dei figli, come avviene in Italia. A cosa si devono situazioni così dissimili? Nel corso degli ultimi venticinque anni, in alcune realtà occidentali la popolazione femminile è stata messa nelle condizioni di trovare strategie efficaci per conciliare lavoro e figli, mentre in altri paesi ciò non è avvenuto, determinando un sostanziale declino della fecondità. In Italia, il fenomeno è imputabile soprattutto all’inadeguatezza delle politiche di welfare in favore delle donne lavoratici e madri, alla rigidità del mercato del lavoro con insufficiente offerta di posti a tempo parziale, limitazioni nei congedi parentali e una carente tutela della maternità. A ciò si deve aggiungere una consolidata resistenza di matrice culturale verso una suddivisione più equilibrata dei compiti di cura e di lavoro domestico tra i partner. Oltre alla componente economico-strutturale legata alla scarsa elasticità del mercato occupazionale, non devono essere messe in secondo piano l’incompatibilità tra orari di lavoro e organizzazione dei servizi alle famiglie e la forte penalizzazione fiscale riservata alle coppie con figli. Queste brevi osservazioni inducono a riflettere criticamente sulla condizione attuale dell’Italia come paese con una crescita quasi nulla della popolazione e con il livello di fecondità più basso al mondo. Nella ricerca dei potenziali rimedi occupa un posto di primo piano l’introduzione di misure di politiche pubbliche che da un lato favoriscano l’occupazione femminile e, dall’altro, che rendano possibile in pratica la realizzazione del desiderio di diventare genitori. E’ questo il caso dei congedi parentali, introdotti in Italia con la legge n. 53/ 2000. Nel saggio vengono presentati e discussi alcuni risultati di uno dei primi monitoraggi degli effetti della misura rivolta alla concessione (anche ai padri) di periodi di congedo non obbligatori - retribuiti in parte secondo varie modalità - che sostituiscono l’astensione facoltativa per maternità. I dati indicano che subito dopo l’entrata in vigore della legge si assiste ad un aumento generalizzato dell’utilizzo del congedo parentale, che presenta un andamento tendenzialmente costante fino al 2003. Inoltre, il monitoraggio suggerisce una sostanziale disparità di genere nell’utilizzo della misura, che si conferma nel tempo. I padri tendono ad optare in prevalenza per il primo mese di congedo a stipendio pieno, evidenziando che il fattore retributivo gioca un ruolo sostanziale nella scelta dell’astensione dal lavoro. Anche il contesto territoriale di riferimento rappresenta una discriminante cruciale per le scelte: al Nord i tassi di utilizzo dei congedi parentali restano più consistenti rispetto a quanto avviene nel Mezzogiorno, mentre il Centro si colloca in una posizione intermedia. Si può concludere che attraverso il provvedimento legislativo che abbiamo analizzato è stato compiuto un passo significativo, ma non definitivamente risolutivo, nella direzione della ricomposizione dell’identità femminile tra privato e pubblico nei diversi aspetti che si concretizzano nei ruoli di madre e di lavoratrice.
Politiche a sostegno della famiglia e della partecipazione femminile al mercato del lavoro. I congedi parentali
ZANIER, Maria Letizia
2009-01-01
Abstract
Nei paesi dell’Europa mediterranea, di cui l’Italia fa parte, l’andamento della partecipazione femminile al mercato del lavoro si collega in modo peculiare alla questione del declino della fecondità. Questi ambiti territoriali costituiscono un caso particolare, dal momento che il nesso causale tra i fenomeni assume una direzione opposta rispetto a quanto si rileva nei paesi del Nord Europa e negli Stati Uniti. E la relazione tra i due fattori va interpretata secondo modalità assai più complesse rispetto ad una semplice incompatibilità tra i ruoli delle donne che sono anche madri. Come emerge da molti riscontri empirici, non è scontato che ad un incrementato livello del lavoro extradomestico delle donne faccia seguito un corrispondente declino nel numero dei figli, come avviene in Italia. A cosa si devono situazioni così dissimili? Nel corso degli ultimi venticinque anni, in alcune realtà occidentali la popolazione femminile è stata messa nelle condizioni di trovare strategie efficaci per conciliare lavoro e figli, mentre in altri paesi ciò non è avvenuto, determinando un sostanziale declino della fecondità. In Italia, il fenomeno è imputabile soprattutto all’inadeguatezza delle politiche di welfare in favore delle donne lavoratici e madri, alla rigidità del mercato del lavoro con insufficiente offerta di posti a tempo parziale, limitazioni nei congedi parentali e una carente tutela della maternità. A ciò si deve aggiungere una consolidata resistenza di matrice culturale verso una suddivisione più equilibrata dei compiti di cura e di lavoro domestico tra i partner. Oltre alla componente economico-strutturale legata alla scarsa elasticità del mercato occupazionale, non devono essere messe in secondo piano l’incompatibilità tra orari di lavoro e organizzazione dei servizi alle famiglie e la forte penalizzazione fiscale riservata alle coppie con figli. Queste brevi osservazioni inducono a riflettere criticamente sulla condizione attuale dell’Italia come paese con una crescita quasi nulla della popolazione e con il livello di fecondità più basso al mondo. Nella ricerca dei potenziali rimedi occupa un posto di primo piano l’introduzione di misure di politiche pubbliche che da un lato favoriscano l’occupazione femminile e, dall’altro, che rendano possibile in pratica la realizzazione del desiderio di diventare genitori. E’ questo il caso dei congedi parentali, introdotti in Italia con la legge n. 53/ 2000. Nel saggio vengono presentati e discussi alcuni risultati di uno dei primi monitoraggi degli effetti della misura rivolta alla concessione (anche ai padri) di periodi di congedo non obbligatori - retribuiti in parte secondo varie modalità - che sostituiscono l’astensione facoltativa per maternità. I dati indicano che subito dopo l’entrata in vigore della legge si assiste ad un aumento generalizzato dell’utilizzo del congedo parentale, che presenta un andamento tendenzialmente costante fino al 2003. Inoltre, il monitoraggio suggerisce una sostanziale disparità di genere nell’utilizzo della misura, che si conferma nel tempo. I padri tendono ad optare in prevalenza per il primo mese di congedo a stipendio pieno, evidenziando che il fattore retributivo gioca un ruolo sostanziale nella scelta dell’astensione dal lavoro. Anche il contesto territoriale di riferimento rappresenta una discriminante cruciale per le scelte: al Nord i tassi di utilizzo dei congedi parentali restano più consistenti rispetto a quanto avviene nel Mezzogiorno, mentre il Centro si colloca in una posizione intermedia. Si può concludere che attraverso il provvedimento legislativo che abbiamo analizzato è stato compiuto un passo significativo, ma non definitivamente risolutivo, nella direzione della ricomposizione dell’identità femminile tra privato e pubblico nei diversi aspetti che si concretizzano nei ruoli di madre e di lavoratrice.File | Dimensione | Formato | |
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