Il discorso sui migranti coinvolge il discorso sull’identità e sull’alterità, ponendo a confronto due dimensioni che il linguaggio comune considera reciprocamente escludenti, nella misura in cui l’identità di ciascuno si sente insediata da quella di ogni altro potenzialmente nemica. Alla base di questa visione vi è la presunzione di un duplice possesso: dell’io identico a sé che si possiede e della disponibilità piena della lingua ricevuta. L’altro dovrà corrispondere e omologarsi a quell’io e a quella lingua di cui disponiamo. Il migrante che non si identifica con il nostro possesso diviene l’estraneo, il nemico, da ridurre alla nostra identità. L’io, tuttavia, non è un mero dato, ma il risultato di un unificare che sfugge alla presa conoscitiva. L’io è nella duplicità di essere sia ciò che è conosciuto, sia ciò che si sottrae alla conoscibilità, poiché la scissione è la sua condizione. L’alterità che abita l’io lo rende incerto e lo spinge a cercare una misura in quell’altro esterno nel quale riconosce, e non già conosce, l’alterità che attraversa lui stesso. La legge dell’io non è allora quella dell’identità, ma quella del tenere insieme identità e alterità. Sia il soggetto che il linguaggio esprimono un’indisponibilità, una ex-propriazione: sono costitutivamente scissi e non coincidono mai con se stessi. La distanza da sé è apertura dello spazio della parola che consente di presentare di nuovo e alterare la realtà. Tanto l’identità che l’alterità sorgono e si mantengono in questa distanza, in un equilibrio incerto e sempre riformulabile. La scissione interna di soggetto e linguaggio, la loro indisponibilità, accomuna gli uomini nella loro differenza. La legge del non potere disporre, della relazione, svela il compito della politica e del diritto. L’Occidente affronta le sue emergenze, come quella migratoria, con il fissare l’identità in modo autoreferente, nel sospetto verso quanti contagiano la nostra lingua con una lingua differente facendo oscillare i confini identitari. La relazione come legge che permette di tenere insieme gli opposti comporta l’esposizione all’altro non come mero riflesso di sé, ma all’altro reale. Nella fase contemporanea l’Occidente, divenuto cultura dell’immagine, sviluppa un’immagine nella quale l’altro deve necessariamente adeguarsi alla misura che l’Occidente stesso pone: disponibilità e calcolabilità di tutto quanto si incontra. In un sistema delle evidenze e in un linguaggio ridotto a veicolo di informazione, il problema dei migranti è risolto con il computo delle quote di accesso. Il numero è criterio di una società senza criteri che considera l’io e il linguaggio come oggetto di un calcolo. Nell’attuale società complessa, i migranti sono destinatari della volontà di disponibilità sia nei termini di dominio che di indifferenza: dominio nei confronti delle culture di appartenenza, indifferenza verso gli esseri umani che appartengono a queste culture. Nella crisi identitaria prodotta dai processi globali, la migrazione, presentata come pericolo comune, è funzionale al persistere delle attuali forme di organizzazione che non vogliono essere rimesse in movimento. Nella società della visibilità esibita, il migrante è tollerato nella misura in cui riesce e rendersi invisibile, mimetizzando la sua funzionalità entro le pieghe di un’economia sommersa che lo renda docile e muto di ogni pretesa. Il migrante sembra essere al fondo l’immagine speculare della condizione che la società complessa impone, diffondendo la credenza di una libera scelta dei destinatari di questa imposizione e l’illusorietà di una trasparenza esibita. Il trattamento che il migrante subisce è la cartina di tornasole per cogliere la verità della società complessa, la quale è al fondo la semplificazione più grande possibile di un o/o, o si come noi oppure si è esclusi, ove la ipersemplificazione è la forma attuale con cui si dissimula la volontà di disponibilità integrale e la violenza della dimensione contemporanea.

I migranti che noi siamo

AMADIO, Carla
2005-01-01

Abstract

Il discorso sui migranti coinvolge il discorso sull’identità e sull’alterità, ponendo a confronto due dimensioni che il linguaggio comune considera reciprocamente escludenti, nella misura in cui l’identità di ciascuno si sente insediata da quella di ogni altro potenzialmente nemica. Alla base di questa visione vi è la presunzione di un duplice possesso: dell’io identico a sé che si possiede e della disponibilità piena della lingua ricevuta. L’altro dovrà corrispondere e omologarsi a quell’io e a quella lingua di cui disponiamo. Il migrante che non si identifica con il nostro possesso diviene l’estraneo, il nemico, da ridurre alla nostra identità. L’io, tuttavia, non è un mero dato, ma il risultato di un unificare che sfugge alla presa conoscitiva. L’io è nella duplicità di essere sia ciò che è conosciuto, sia ciò che si sottrae alla conoscibilità, poiché la scissione è la sua condizione. L’alterità che abita l’io lo rende incerto e lo spinge a cercare una misura in quell’altro esterno nel quale riconosce, e non già conosce, l’alterità che attraversa lui stesso. La legge dell’io non è allora quella dell’identità, ma quella del tenere insieme identità e alterità. Sia il soggetto che il linguaggio esprimono un’indisponibilità, una ex-propriazione: sono costitutivamente scissi e non coincidono mai con se stessi. La distanza da sé è apertura dello spazio della parola che consente di presentare di nuovo e alterare la realtà. Tanto l’identità che l’alterità sorgono e si mantengono in questa distanza, in un equilibrio incerto e sempre riformulabile. La scissione interna di soggetto e linguaggio, la loro indisponibilità, accomuna gli uomini nella loro differenza. La legge del non potere disporre, della relazione, svela il compito della politica e del diritto. L’Occidente affronta le sue emergenze, come quella migratoria, con il fissare l’identità in modo autoreferente, nel sospetto verso quanti contagiano la nostra lingua con una lingua differente facendo oscillare i confini identitari. La relazione come legge che permette di tenere insieme gli opposti comporta l’esposizione all’altro non come mero riflesso di sé, ma all’altro reale. Nella fase contemporanea l’Occidente, divenuto cultura dell’immagine, sviluppa un’immagine nella quale l’altro deve necessariamente adeguarsi alla misura che l’Occidente stesso pone: disponibilità e calcolabilità di tutto quanto si incontra. In un sistema delle evidenze e in un linguaggio ridotto a veicolo di informazione, il problema dei migranti è risolto con il computo delle quote di accesso. Il numero è criterio di una società senza criteri che considera l’io e il linguaggio come oggetto di un calcolo. Nell’attuale società complessa, i migranti sono destinatari della volontà di disponibilità sia nei termini di dominio che di indifferenza: dominio nei confronti delle culture di appartenenza, indifferenza verso gli esseri umani che appartengono a queste culture. Nella crisi identitaria prodotta dai processi globali, la migrazione, presentata come pericolo comune, è funzionale al persistere delle attuali forme di organizzazione che non vogliono essere rimesse in movimento. Nella società della visibilità esibita, il migrante è tollerato nella misura in cui riesce e rendersi invisibile, mimetizzando la sua funzionalità entro le pieghe di un’economia sommersa che lo renda docile e muto di ogni pretesa. Il migrante sembra essere al fondo l’immagine speculare della condizione che la società complessa impone, diffondendo la credenza di una libera scelta dei destinatari di questa imposizione e l’illusorietà di una trasparenza esibita. Il trattamento che il migrante subisce è la cartina di tornasole per cogliere la verità della società complessa, la quale è al fondo la semplificazione più grande possibile di un o/o, o si come noi oppure si è esclusi, ove la ipersemplificazione è la forma attuale con cui si dissimula la volontà di disponibilità integrale e la violenza della dimensione contemporanea.
2005
9788846466549
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11393/40007
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