“Dimmi come consideri la traduzione e ti dirò chi sei”, scrive Heidegger concludendo la Nota nella quale spiega le sue scelte nel tradurre alcuni versi dell’Antigone di Sofocle. Lo scrive per motivare la sua traduzione del coro della tragedia (vv. 332-375), in particolare il celebre neutro "to deinòn" che propone di intendere come “l’inquietante, das Unheimliche”. Tradurre non significa soltanto passare da una parola all’altra, avverte Heidegger, e sebbene “un vocabolario possa fornire indicazioni utili per la comprensione delle parole”, questa correttezza “non garantisce ancora la visione della verità di quel che la parola significa e può significare quando vogliamo sapere l’ambito essenziale nominato dalla parola”. Insomma, “se si guarda allo spirito storico di una lingua nel suo insieme, ad ogni vocabolario viene a mancare qualunque riferimento ad una misura immediata e ad una condizione vincolante”. Al contrario, “la traduzione può addirittura mettere in luce delle connessioni che nella lingua tradotta non sono emerse, benché siano in essa giacenti”. “Di qui – prosegue Heidegger annunciando la tesi che Gadamer farà propria e amplierà in Verità e metodo – si vede come ogni tradurre debba essere un interpretare. Nel contempo vale anche l’opposto: ogni interpretare e tutto ciò che è posto al suo servizio, è un tradurre”. L’identificazione di interpretare e tradurre dilata ed amplifica, però, il senso della traduzione, la quale “non si muove solamente tra due diverse lingue, ma c’è un tradurre che avviene anche all’interno della stessa lingua”. Così, “l’interpretazione degli inni di Hölderlin è un tradurre all’interno della nostra lingua tedesca”; interpretazione che apre alla comprensione, dove comprendere o tradurre per rendere comprensibile significa “risvegliare la comprensione affinché la cieca presunzione del modo usuale di pensare debba essere spezzata ed abbandonata, se la verità di un’opera deve svelarsi”. Dopo queste affermazioni e precisazioni, la Nota sul tradurre si chiude con la citazione con cui abbiamo esordito: “Questa nota […] ha voluto ricordare che la difficoltà di una traduzione non è mai una difficoltà semplicemente tecnica, ma è qualcosa che tocca il rapporto dell’uomo con l’essenza della parola e con la dignità della lingua. Dimmi come consideri la traduzione e ti dirò chi sei”. C’è una traduzione interna alla lingua che deve far emergere quella verità della lingua stessa che va dis-velata, portata alla luce perché “nell’essenza della lingua di un popolo storico, giace qualcosa che è come una catena montuosa rispetto alla pianura e alla superficie piatta, qualcosa che in rare vette s’innalza ad altezze altrimenti irraggiungibili […]. L’interpretare inteso come tradurre è sì un rendere comprensibile, non però nel senso in cui lo intende l’intelletto comune. Per restare nell’immagine proposta: la vetta di un’opera linguistica, della poesia o del pensiero non deve essere abbassata con la traduzione, e l’intera catena montuosa deve spingere sul cammino dell’ascesa verso la vetta”. La traduzione, dunque, è un percorso nel quale ne va della verità della lingua, verità che nella traduzione si svela. Percorso nel quale è sempre in gioco qualcosa in più di un puro e semplice transito linguistico. Un “di più” col quale il termine è nato; o meglio, col quale ha fatto la sua “apparizione”.

La traduzione come mediazione nel dialogo tra le culture

CANULLO, Carla
2007-01-01

Abstract

“Dimmi come consideri la traduzione e ti dirò chi sei”, scrive Heidegger concludendo la Nota nella quale spiega le sue scelte nel tradurre alcuni versi dell’Antigone di Sofocle. Lo scrive per motivare la sua traduzione del coro della tragedia (vv. 332-375), in particolare il celebre neutro "to deinòn" che propone di intendere come “l’inquietante, das Unheimliche”. Tradurre non significa soltanto passare da una parola all’altra, avverte Heidegger, e sebbene “un vocabolario possa fornire indicazioni utili per la comprensione delle parole”, questa correttezza “non garantisce ancora la visione della verità di quel che la parola significa e può significare quando vogliamo sapere l’ambito essenziale nominato dalla parola”. Insomma, “se si guarda allo spirito storico di una lingua nel suo insieme, ad ogni vocabolario viene a mancare qualunque riferimento ad una misura immediata e ad una condizione vincolante”. Al contrario, “la traduzione può addirittura mettere in luce delle connessioni che nella lingua tradotta non sono emerse, benché siano in essa giacenti”. “Di qui – prosegue Heidegger annunciando la tesi che Gadamer farà propria e amplierà in Verità e metodo – si vede come ogni tradurre debba essere un interpretare. Nel contempo vale anche l’opposto: ogni interpretare e tutto ciò che è posto al suo servizio, è un tradurre”. L’identificazione di interpretare e tradurre dilata ed amplifica, però, il senso della traduzione, la quale “non si muove solamente tra due diverse lingue, ma c’è un tradurre che avviene anche all’interno della stessa lingua”. Così, “l’interpretazione degli inni di Hölderlin è un tradurre all’interno della nostra lingua tedesca”; interpretazione che apre alla comprensione, dove comprendere o tradurre per rendere comprensibile significa “risvegliare la comprensione affinché la cieca presunzione del modo usuale di pensare debba essere spezzata ed abbandonata, se la verità di un’opera deve svelarsi”. Dopo queste affermazioni e precisazioni, la Nota sul tradurre si chiude con la citazione con cui abbiamo esordito: “Questa nota […] ha voluto ricordare che la difficoltà di una traduzione non è mai una difficoltà semplicemente tecnica, ma è qualcosa che tocca il rapporto dell’uomo con l’essenza della parola e con la dignità della lingua. Dimmi come consideri la traduzione e ti dirò chi sei”. C’è una traduzione interna alla lingua che deve far emergere quella verità della lingua stessa che va dis-velata, portata alla luce perché “nell’essenza della lingua di un popolo storico, giace qualcosa che è come una catena montuosa rispetto alla pianura e alla superficie piatta, qualcosa che in rare vette s’innalza ad altezze altrimenti irraggiungibili […]. L’interpretare inteso come tradurre è sì un rendere comprensibile, non però nel senso in cui lo intende l’intelletto comune. Per restare nell’immagine proposta: la vetta di un’opera linguistica, della poesia o del pensiero non deve essere abbassata con la traduzione, e l’intera catena montuosa deve spingere sul cammino dell’ascesa verso la vetta”. La traduzione, dunque, è un percorso nel quale ne va della verità della lingua, verità che nella traduzione si svela. Percorso nel quale è sempre in gioco qualcosa in più di un puro e semplice transito linguistico. Un “di più” col quale il termine è nato; o meglio, col quale ha fatto la sua “apparizione”.
2007
9788825019070
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11393/39969
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