Quale dignità si può riconoscere alla sofferenza degli ultimi giorni? Possiamo forse parlare di una dignità del morire, così come si può parlare di una dignità del vivere? Come sfuggire alla grande tentazione, che sembra contagiare sempre più il nostro tempo, di proclamarci padroni della vita, dichiarando indegno quel vivere in cui i margini di autonomia operativa e funzionale sono ormai ridotti a zero? Eutanasia, accanimento terapeutico, pena di morte sono alcune delle forme più sofferte e discusse di questa volontà di dominio, che l’uomo sembra rivendicare proprio nel momento della sua massima dipendenza. Queste risposte estreme affiorano sul terreno incerto e problematico dell’incontro ordinario con la morte, a volte umiliato dalla degradazione fisica, dall’inefficienza delle strutture medico-sanitarie, dalla solitudine esistenziale, dall’angoscia tutta umana dinanzi all’imminenza della fine. Dinanzi alla diffusa rimozione e banalizzazione del decesso, occorre superare il punto di vista impersonale, giungendo a guardare alla morte in “prima persona” attraverso il tirocinio duro e benedetto della fedeltà e dell’assistenza al morente. Tra i due parametri del rispetto della vita e della promozione della persona esistono margini ampi e doverosi di prossimità e di intervento: quando il guarire è impossibile, il curare resta un compito che passa sempre meno attraverso i registri freddi ed invasivi della tecnica e sempre più attraverso i registri caldi e discreti della tenerezza e della sollecitudine. Si scopre così, nella gratuità di una relazione con l’altro solo in apparenza perdente, un altro modo attraverso il quale l’umanità dice il suo sì alla vita, edificando un orizzonte di responsabilità che oltrepassa le inesorabili leggi della biologia. La morte insegna alla persona a riconoscersi affidata al proprio corpo, senza confidare completamente in esso. La morte è lo scandalo del limite nella speranza dell'ulteriore.
Filosofia della morte
ALICI, Luigino
1998-01-01
Abstract
Quale dignità si può riconoscere alla sofferenza degli ultimi giorni? Possiamo forse parlare di una dignità del morire, così come si può parlare di una dignità del vivere? Come sfuggire alla grande tentazione, che sembra contagiare sempre più il nostro tempo, di proclamarci padroni della vita, dichiarando indegno quel vivere in cui i margini di autonomia operativa e funzionale sono ormai ridotti a zero? Eutanasia, accanimento terapeutico, pena di morte sono alcune delle forme più sofferte e discusse di questa volontà di dominio, che l’uomo sembra rivendicare proprio nel momento della sua massima dipendenza. Queste risposte estreme affiorano sul terreno incerto e problematico dell’incontro ordinario con la morte, a volte umiliato dalla degradazione fisica, dall’inefficienza delle strutture medico-sanitarie, dalla solitudine esistenziale, dall’angoscia tutta umana dinanzi all’imminenza della fine. Dinanzi alla diffusa rimozione e banalizzazione del decesso, occorre superare il punto di vista impersonale, giungendo a guardare alla morte in “prima persona” attraverso il tirocinio duro e benedetto della fedeltà e dell’assistenza al morente. Tra i due parametri del rispetto della vita e della promozione della persona esistono margini ampi e doverosi di prossimità e di intervento: quando il guarire è impossibile, il curare resta un compito che passa sempre meno attraverso i registri freddi ed invasivi della tecnica e sempre più attraverso i registri caldi e discreti della tenerezza e della sollecitudine. Si scopre così, nella gratuità di una relazione con l’altro solo in apparenza perdente, un altro modo attraverso il quale l’umanità dice il suo sì alla vita, edificando un orizzonte di responsabilità che oltrepassa le inesorabili leggi della biologia. La morte insegna alla persona a riconoscersi affidata al proprio corpo, senza confidare completamente in esso. La morte è lo scandalo del limite nella speranza dell'ulteriore.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.