I discorsi sulle condizioni di emergenza e sulle misure eccezionali ritenute indispensabili per affrontarle spesso usano retoriche che per giustificare il ricorso allo lo stato d’eccezione impiegano immagini che ribaltano l’originale significato metaforico del vocabolo “emergenza”, ovvero quello di un evento o processo che “affiora” secondo un movimento verticale dal basso verso l’alto. Le situazioni che sono reputate così estreme da scardinare la stabilità della “normale” organizzazione della vita sociale sono infatti sovente raffigurate nei termini di movimenti di enormi dimensioni che minacciano di “sommergere” la società, come le onde di un maremoto (basti pensare a come vengono rappresentate le “ondate” migratorie) – e, del tutto coincidentalmente, la più grande emergenza della storia dell’umanità è quella del riscaldamento globale, che tra gli altri effetti avrà quello dell’innalzamento (quindi, un movimento dal basso verso l’alto) degli oceani e della conseguente e per nulla metaforica sommersione di vaste aree fittamente popolate. Nella cultura popolare occidentale più recente, e in particolare in quella angloamericana, le paure e le ansie prodotte dalle situazioni di emergenza sono state tradotte nelle lingue della letteratura, del cinema, della televisione o del fumetto in un’infinità di modi, ma la figura che si è imposta negli ultimi cinquant’anni come metafora privilegiata dell’“emersione” di una forza che minaccia di sommergere catastroficamente la comunità umana, costringendola a inventare strategie eccezionali di resistenza se non di semplice sopravvivenza, è quella del morto vivente, dello zombi – incarnazione del ritorno del rimosso più rimosso che ci possa essere, quello della morte occultata con l’interramento, che riaffiora dalla sepoltura per sommergere il vivente (immagine ricorrente in innumerevoli film). In Zone One (2011) dello scrittore afroamericano Colson Whitehead l’emergenza suprema dell’apocalisse zombi si è già interamente affermata, ma è apparentemente in via di superamento grazie all’instaurazione di un regime di eccezionalità che sta man mano recuperando alla “normalità” (una normalità peraltro assai inquietante nella sua fittizia pretesa di ordinarietà e familiarità) le “zone” della costa nordorientale degli Stati Uniti. Nel processo di ricostruzione di uno stato post-eccezionale, sembrano essere paradossalmente assenti alcuni fenomeni della società statunitense pre-apocalittica che ne avevano caratterizzato in negativo la “normalità”, come il razzismo diffuso. Il protagonista, uno “sweeper” (un militare addetto a “spazzar via” i morti viventi rimasti a Manhattan), soprannominato ironicamente Mark Spitz (uno dei più grandi nuotatori della storia, ovvero un personaggio che ha come carattere fondamentale quello di non farsi “sommergere”) perché invece di gettarsi in un fiume per sfuggire a un’orda di zombi ha preferito farsi largo a colpi di fucile automatico, è un afroamericano, ma il testo rivela la sua “razza” solo verso la fine, senza che fino a quel momento ne sia mai stata fatta menzione nemmeno dai colleghi, come se si trattasse di un fattore ormai ininfluente e insignificante. Il finale del romanzo ribalterà però ancora una volta la situazione, ristabilendo una condizione di assoluta emergenza che nella scena finale viene ritratta come una marea inarrestabile di morti viventi in cui le differenze razziali riappaiono in tutta la loro visibilità – come a voler suggerire che l’America postrazziale che ormai si pensava di abitare nell’epoca di Barack Obama altro non sia che l’ennesima finzione diretta a occultare la realtà dell’asimmetria dei rapporti di potere tra diverse “etnie”, e sia destinata come le altre strategie di esaltazione dell’“eccezionalità” americana (nel nome dei valori della libertà e della democrazia di cui sarebbe la perfetta realizzazione) a essere infine sommersa dalla insopprimibile riemersione della realtà.

Emergenza e sommersione: Zone One di Colson Whitehead

De Angelis, V. M.
2024-01-01

Abstract

I discorsi sulle condizioni di emergenza e sulle misure eccezionali ritenute indispensabili per affrontarle spesso usano retoriche che per giustificare il ricorso allo lo stato d’eccezione impiegano immagini che ribaltano l’originale significato metaforico del vocabolo “emergenza”, ovvero quello di un evento o processo che “affiora” secondo un movimento verticale dal basso verso l’alto. Le situazioni che sono reputate così estreme da scardinare la stabilità della “normale” organizzazione della vita sociale sono infatti sovente raffigurate nei termini di movimenti di enormi dimensioni che minacciano di “sommergere” la società, come le onde di un maremoto (basti pensare a come vengono rappresentate le “ondate” migratorie) – e, del tutto coincidentalmente, la più grande emergenza della storia dell’umanità è quella del riscaldamento globale, che tra gli altri effetti avrà quello dell’innalzamento (quindi, un movimento dal basso verso l’alto) degli oceani e della conseguente e per nulla metaforica sommersione di vaste aree fittamente popolate. Nella cultura popolare occidentale più recente, e in particolare in quella angloamericana, le paure e le ansie prodotte dalle situazioni di emergenza sono state tradotte nelle lingue della letteratura, del cinema, della televisione o del fumetto in un’infinità di modi, ma la figura che si è imposta negli ultimi cinquant’anni come metafora privilegiata dell’“emersione” di una forza che minaccia di sommergere catastroficamente la comunità umana, costringendola a inventare strategie eccezionali di resistenza se non di semplice sopravvivenza, è quella del morto vivente, dello zombi – incarnazione del ritorno del rimosso più rimosso che ci possa essere, quello della morte occultata con l’interramento, che riaffiora dalla sepoltura per sommergere il vivente (immagine ricorrente in innumerevoli film). In Zone One (2011) dello scrittore afroamericano Colson Whitehead l’emergenza suprema dell’apocalisse zombi si è già interamente affermata, ma è apparentemente in via di superamento grazie all’instaurazione di un regime di eccezionalità che sta man mano recuperando alla “normalità” (una normalità peraltro assai inquietante nella sua fittizia pretesa di ordinarietà e familiarità) le “zone” della costa nordorientale degli Stati Uniti. Nel processo di ricostruzione di uno stato post-eccezionale, sembrano essere paradossalmente assenti alcuni fenomeni della società statunitense pre-apocalittica che ne avevano caratterizzato in negativo la “normalità”, come il razzismo diffuso. Il protagonista, uno “sweeper” (un militare addetto a “spazzar via” i morti viventi rimasti a Manhattan), soprannominato ironicamente Mark Spitz (uno dei più grandi nuotatori della storia, ovvero un personaggio che ha come carattere fondamentale quello di non farsi “sommergere”) perché invece di gettarsi in un fiume per sfuggire a un’orda di zombi ha preferito farsi largo a colpi di fucile automatico, è un afroamericano, ma il testo rivela la sua “razza” solo verso la fine, senza che fino a quel momento ne sia mai stata fatta menzione nemmeno dai colleghi, come se si trattasse di un fattore ormai ininfluente e insignificante. Il finale del romanzo ribalterà però ancora una volta la situazione, ristabilendo una condizione di assoluta emergenza che nella scena finale viene ritratta come una marea inarrestabile di morti viventi in cui le differenze razziali riappaiono in tutta la loro visibilità – come a voler suggerire che l’America postrazziale che ormai si pensava di abitare nell’epoca di Barack Obama altro non sia che l’ennesima finzione diretta a occultare la realtà dell’asimmetria dei rapporti di potere tra diverse “etnie”, e sia destinata come le altre strategie di esaltazione dell’“eccezionalità” americana (nel nome dei valori della libertà e della democrazia di cui sarebbe la perfetta realizzazione) a essere infine sommersa dalla insopprimibile riemersione della realtà.
2024
979-12-5977-409-5
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