In “La speranza e il senso. Metafisica ed ermeneutica in Kant”, Gerardo Cunico ha consegnato un lavoro al contempo originale e complesso sul filosofo di Königsberg cui ha dedicato, nel corso della sua ricerca filosofica, importanti analisi. Con questo libro, come spiega in apertura del volume, egli intende proporre «un’interpretazione del pensiero di Kant come modello di filosofare globale, che include come momento essenziale una ripresa in positivo delle grandi questioni che la tradizione terminologica moderna ha chiamato “metafisiche”, ma che di per sé non sono altro che le ineludibili domande ultime della ragione umana». Il nostro filosofo svolge la sua ricerca cercando in Kant «il filo conduttore di un’autocomprensione dell’essere umano (come essere razionale qualificato dalla libertà e dalla coscienza morale) che richiede e motiva un’interpretazione del mondo congruente con tale coscienza di sé e centrata sulla fiducia di un “autore” divino che offre tale garanzia, peraltro solo sperata, ma non dimostrabile rigorosamente, di un “senso” dell’esistenza del mondo e dell’esistenza umana in esso». Filo conduttore che «le due parole del titolo (La speranza e il senso) […] caratterizzano […] nel suo punto di avvio e nel suo punto di fuga». Cunico tocca tanti motivi kantiani nei quali la sua ipotesi si conferma e svolge. Due di questi motivi troverebbero un inedito compagnonnage con un autore francese del XX secolo, Jean Nabert, per il quale l’io, e dunque l’esistenza umana, è tesa tra male e speranza – due poli che anche Cunico indaga nella sua opera cogliendone il loro difficile annodarsi. Infatti Cunico, nella sua indagine dell’opera kantiana, osserva che la speranza è destinata a frangersi nel male radicale, il quale reciprocamente accende «una dialettica più complessa che coinvolge la speranza rivolta al superamento di questa figura cruciale di male». Dissentendo dalla lettura che, del male radicale in Kant, è stata proposta da Henri E. Allison (il quale fornisce a tale male una giustificazione apriori) Cunico rimarca invece che Kant presenta il male «come fatto contingente, indeducibile, a posteriori, per quanto non collocabile nel tempo, perché prodotto di un atto libero […]; come un fatto sul piano esistenziale, non sul piano essenziale, anche se dobbiamo supporlo come un atto originariamente compiuto da ogni essere umano (così Kant)». Questo apre la questione (problematica o aporetica) di come sia possibile – data la radicalità del male – una conversione, questione che «mette di fronte alla congiunta necessità di pensare e ammettere un atto iniziale di libertà che non cade nel tempo e che tuttavia può essere revocato e ribaltato in un atto (altrettanto atemporale), di segno e valore opposto». E, nell’affrontare tale problema, Cunico osserva che «la “conversione” al bene va intesa come “rivoluzione” (atemporale) del carattere intelligibile che si traduce sul piano temporale in una continua “riforma” ossia in un miglioramento graduale del carattere empirico» che l’uomo può sperare e che una “lecita speranza” nella collaborazione da parte di Dio corrobora. È forse proprio in tale “rivoluzione” che sta il possibile compagnonnage di Cunico e Nabert. Certo, leggendo la Nota sul male radicale in Kant che chiude il “Saggio sul male” si evidenzierebbe la distanza tra la lettura proposta da Cunico del male kantiano e l’interpretazione che ne propone Nabert. Invece, la loro prossimità si giocherebbe proprio sul ruolo centrale della “rivoluzione” che il filosofo genovese segnala; “rivoluzione” che si traccia come speranza e che anche Nabert ricercava malgrado e nonostante le analisi svolte sul male – o addirittura proprio perché era insoddisfatto della propria indagine. È, allora, facendo di questa “rivoluzione” la chiave di lettura dell’opera nabertiana che anche il filosofo francese potrebbe essere letto sotto una nuova luce. Una “rivoluzione” nella quale per l’uomo si apre quella “lecita speranza” che è ordine “altro” dall’io e che, tuttavia, gli risponde.

Tra male e speranza. L’iperbole dell’io secondo Jean Nabert

C. Canullo
2024-01-01

Abstract

In “La speranza e il senso. Metafisica ed ermeneutica in Kant”, Gerardo Cunico ha consegnato un lavoro al contempo originale e complesso sul filosofo di Königsberg cui ha dedicato, nel corso della sua ricerca filosofica, importanti analisi. Con questo libro, come spiega in apertura del volume, egli intende proporre «un’interpretazione del pensiero di Kant come modello di filosofare globale, che include come momento essenziale una ripresa in positivo delle grandi questioni che la tradizione terminologica moderna ha chiamato “metafisiche”, ma che di per sé non sono altro che le ineludibili domande ultime della ragione umana». Il nostro filosofo svolge la sua ricerca cercando in Kant «il filo conduttore di un’autocomprensione dell’essere umano (come essere razionale qualificato dalla libertà e dalla coscienza morale) che richiede e motiva un’interpretazione del mondo congruente con tale coscienza di sé e centrata sulla fiducia di un “autore” divino che offre tale garanzia, peraltro solo sperata, ma non dimostrabile rigorosamente, di un “senso” dell’esistenza del mondo e dell’esistenza umana in esso». Filo conduttore che «le due parole del titolo (La speranza e il senso) […] caratterizzano […] nel suo punto di avvio e nel suo punto di fuga». Cunico tocca tanti motivi kantiani nei quali la sua ipotesi si conferma e svolge. Due di questi motivi troverebbero un inedito compagnonnage con un autore francese del XX secolo, Jean Nabert, per il quale l’io, e dunque l’esistenza umana, è tesa tra male e speranza – due poli che anche Cunico indaga nella sua opera cogliendone il loro difficile annodarsi. Infatti Cunico, nella sua indagine dell’opera kantiana, osserva che la speranza è destinata a frangersi nel male radicale, il quale reciprocamente accende «una dialettica più complessa che coinvolge la speranza rivolta al superamento di questa figura cruciale di male». Dissentendo dalla lettura che, del male radicale in Kant, è stata proposta da Henri E. Allison (il quale fornisce a tale male una giustificazione apriori) Cunico rimarca invece che Kant presenta il male «come fatto contingente, indeducibile, a posteriori, per quanto non collocabile nel tempo, perché prodotto di un atto libero […]; come un fatto sul piano esistenziale, non sul piano essenziale, anche se dobbiamo supporlo come un atto originariamente compiuto da ogni essere umano (così Kant)». Questo apre la questione (problematica o aporetica) di come sia possibile – data la radicalità del male – una conversione, questione che «mette di fronte alla congiunta necessità di pensare e ammettere un atto iniziale di libertà che non cade nel tempo e che tuttavia può essere revocato e ribaltato in un atto (altrettanto atemporale), di segno e valore opposto». E, nell’affrontare tale problema, Cunico osserva che «la “conversione” al bene va intesa come “rivoluzione” (atemporale) del carattere intelligibile che si traduce sul piano temporale in una continua “riforma” ossia in un miglioramento graduale del carattere empirico» che l’uomo può sperare e che una “lecita speranza” nella collaborazione da parte di Dio corrobora. È forse proprio in tale “rivoluzione” che sta il possibile compagnonnage di Cunico e Nabert. Certo, leggendo la Nota sul male radicale in Kant che chiude il “Saggio sul male” si evidenzierebbe la distanza tra la lettura proposta da Cunico del male kantiano e l’interpretazione che ne propone Nabert. Invece, la loro prossimità si giocherebbe proprio sul ruolo centrale della “rivoluzione” che il filosofo genovese segnala; “rivoluzione” che si traccia come speranza e che anche Nabert ricercava malgrado e nonostante le analisi svolte sul male – o addirittura proprio perché era insoddisfatto della propria indagine. È, allora, facendo di questa “rivoluzione” la chiave di lettura dell’opera nabertiana che anche il filosofo francese potrebbe essere letto sotto una nuova luce. Una “rivoluzione” nella quale per l’uomo si apre quella “lecita speranza” che è ordine “altro” dall’io e che, tuttavia, gli risponde.
2024
9788846764065
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11393/328310
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