Italia e Giappone condividono diverse somiglianze demografiche, politiche, economiche e sociali (Beretta et al. 2014), tra cui: basso tasso di natalità; rapido invecchiamento della popolazione; contrazione della popolazione in età lavorativa (OECD. Stat 2021); una storia politico-industriale simile (almeno fino agli anni '90) (Itō, Suginohara 2014); una grande presenza di piccole e medie imprese (PMI) come principali meccanismi nazionali di produzione; marcata dualizzazione del mercato del lavoro (Piore 1979); difficoltà nel reperire forza lavoro autoctona disposta ad essere impiegata nel gradino più basso del mercato del lavoro segmentato; e deboli sistemi di welfare che vengono classificati come "familisti" (Ferrera 1996; Estévez-Abe, Naldini 2016; Uzuhashi 2003). Queste sono solo alcune delle somiglianze più evidenti. Naturalmente, sono presenti anche significative differenze strutturali. Ad esempio, adottando come riferimento analitico l'approccio Varietà of Capitalismo (VoC) (Hall, Soskice 2001), Italia e Giappone appartengono a sistemi politico-economici diversi. Il primo paese è una Economia di Mercato Mista (EMM) (Molina, Rhodes 2006; Hall, Gingerich 2009), mentre il secondo è una Economia di Mercato Coordinata (EMC) (Hall, Soskice 2001), con soluzioni distinte e alternative per mantenere i rispettivi vantaggi comparativi, cioè le caratteristiche peculiari di ogni tipo di economia di mercato capace di risolvere i problemi politico-economici ed essere competitiva nel mercato globalizzato. Tuttavia, le questioni economiche e demografiche indicano una forte necessità, per entrambi i sistemi, di ottenere nuova forza lavoro che possa essere sia a basso costo che altamente flessibile, per poter ridurre i costi di produzione al fine di competere con i mercati internazionali. Se questo tipo di processo avviene già strutturalmente in Italia, per il Giappone potrebbe essere (apparentemente) una novità. Nel corso della sua storia recente (dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi), il Giappone ha visto una bassa presenza e uno scarso contributo economico di manodopera straniera, rivelandosi, nel corso degli anni '70 e '80, una tipologia di configurazione economica alternativa rispetto a quella occidentale. Un cosiddetto "caso negativo" (Bartram 2000) di migrazione lavorativa. Nonostante sia stato studiato (e talvolta invidiato) fino alla fine degli anni '80 (Nakamura 1993), anche il sistema giapponese di relazioni industriali ha dovuto rinunciare parzialmente alla sua atavica resistenza alla presenza di manodopera migrante sul suo territorio. La pressione neoliberista portata dalla globalizzazione, insieme alle dinamiche demografiche divenute strutturali per l'arcipelago (e in tutti i paesi OCSE), ha imposto un primo cambiamento di atteggiamento politico con la revisione dell'Immigration Control and Refugee Recognition Act (ICRRA) nel 1989 (Brody 2002; Weiner 2003; Shipper 2008; Hamaguchi 2019; Burgess 2020). Tuttavia, questa revisione è stata flebile rispetto alle reali esigenze del mercato del lavoro interno poiché, nonostante le varie crisi economiche che si sono susseguite (scoppio della "bubble economy" del 1992, i successivi "lost decades", crisi finanziaria del 2008, terremoto del Tōhoku del 2011 e ora pandemia di Covid-19), non ha mai smesso di richiedere manodopera a basso costo, flessibile e generalmente poco qualificata. Ciò è particolarmente pressante per le numerose PMI che compongono il sistema produttivo nazionale (OECD 2020; Toyonaga 2021), ovvero le entità economiche più esposte alle difficoltà innescate dalla globalizzazione (Hamaguchi 2019). La questione è stata nuovamente ravvivata dall'ennesimo emendamento dell'ICRRA di fine 2018 che, per la prima volta nella storia contemporanea del Giappone, ha aperto una porta d'ingresso (legale) ai lavoratori stranieri di media e bassa qualifica, modificando potenzialmente il quasi costante immobilismo del governo di Tōkyō sulla questione e aprendo così a un processo trasformativo sistemico potenzialmente più ampio (Hamaguchi 2019). Ci si chiede, a questo punto, se le tendenze trasformative in atto siano un innesco sufficiente per l'avvio (o la prosecuzione) di un processo convergente verso altri sistemi politico-economici, con particolare riferimento al sistema italiano per le analogie strutturali sopra citate. Sebbene sia da escludere una vera e propria convergenza, è interessante capire se esista almeno un processo trasformativo, anche in fase embrionale, che possa rispondere alle esigenze delle PMI e del più ampio mercato del lavoro giapponese, sradicando così l'immobilismo politico e la velata ostilità al cambiamento. Attraverso una serie di interviste condotte con gli attori delle relazioni industriali italiane e giapponesi, è stato possibile comprendere la situazione attuale dei rispettivi mercati del lavoro sui temi legati ai cambiamenti sistemici e al ruolo dei lavoratori migranti. In particolare, attraverso il dialogo diretto con attori privilegiati delle relazioni industriali giapponesi, è possibile comprendere la presenza di un'ipotetica tendenza trasformativa, potenzialmente convergente con i paesi EMM, soprattutto sul tema delle politiche migratorie in funzione delle esigenze del mercato del lavoro interno. I risultati della ricerca, contrariamente alle aspettative iniziali, hanno quasi completamente smentito l'ipotesi di una prossima trasformazione all'interno del mercato del lavoro giapponese, senza tuttavia negare la necessità strutturale di una nuova forza lavoro flessibile, a basso costo e poco qualificata. Sono la portata e la necessità (percepita) di un'ulteriore spinta liberalizzatrice nelle politiche migratorie ad essere ancora limitate. Se esiste una trasformazione, e un'eventuale convergenza sistemica, essa sta avvenendo a una velocità quasi impercettibile, fuori dalla vista (e dall'interesse) dei principali attori socio-economici istituzionali del Giappone.

SIMILARITIES AND DIFFERENCES IN TWO MODELS OF POLITICAL ECONOMY Japanese migration policy transformations in a comparative perspective with the Italian case

Nicola COSTALUNGA
2022-01-01

Abstract

Italia e Giappone condividono diverse somiglianze demografiche, politiche, economiche e sociali (Beretta et al. 2014), tra cui: basso tasso di natalità; rapido invecchiamento della popolazione; contrazione della popolazione in età lavorativa (OECD. Stat 2021); una storia politico-industriale simile (almeno fino agli anni '90) (Itō, Suginohara 2014); una grande presenza di piccole e medie imprese (PMI) come principali meccanismi nazionali di produzione; marcata dualizzazione del mercato del lavoro (Piore 1979); difficoltà nel reperire forza lavoro autoctona disposta ad essere impiegata nel gradino più basso del mercato del lavoro segmentato; e deboli sistemi di welfare che vengono classificati come "familisti" (Ferrera 1996; Estévez-Abe, Naldini 2016; Uzuhashi 2003). Queste sono solo alcune delle somiglianze più evidenti. Naturalmente, sono presenti anche significative differenze strutturali. Ad esempio, adottando come riferimento analitico l'approccio Varietà of Capitalismo (VoC) (Hall, Soskice 2001), Italia e Giappone appartengono a sistemi politico-economici diversi. Il primo paese è una Economia di Mercato Mista (EMM) (Molina, Rhodes 2006; Hall, Gingerich 2009), mentre il secondo è una Economia di Mercato Coordinata (EMC) (Hall, Soskice 2001), con soluzioni distinte e alternative per mantenere i rispettivi vantaggi comparativi, cioè le caratteristiche peculiari di ogni tipo di economia di mercato capace di risolvere i problemi politico-economici ed essere competitiva nel mercato globalizzato. Tuttavia, le questioni economiche e demografiche indicano una forte necessità, per entrambi i sistemi, di ottenere nuova forza lavoro che possa essere sia a basso costo che altamente flessibile, per poter ridurre i costi di produzione al fine di competere con i mercati internazionali. Se questo tipo di processo avviene già strutturalmente in Italia, per il Giappone potrebbe essere (apparentemente) una novità. Nel corso della sua storia recente (dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi), il Giappone ha visto una bassa presenza e uno scarso contributo economico di manodopera straniera, rivelandosi, nel corso degli anni '70 e '80, una tipologia di configurazione economica alternativa rispetto a quella occidentale. Un cosiddetto "caso negativo" (Bartram 2000) di migrazione lavorativa. Nonostante sia stato studiato (e talvolta invidiato) fino alla fine degli anni '80 (Nakamura 1993), anche il sistema giapponese di relazioni industriali ha dovuto rinunciare parzialmente alla sua atavica resistenza alla presenza di manodopera migrante sul suo territorio. La pressione neoliberista portata dalla globalizzazione, insieme alle dinamiche demografiche divenute strutturali per l'arcipelago (e in tutti i paesi OCSE), ha imposto un primo cambiamento di atteggiamento politico con la revisione dell'Immigration Control and Refugee Recognition Act (ICRRA) nel 1989 (Brody 2002; Weiner 2003; Shipper 2008; Hamaguchi 2019; Burgess 2020). Tuttavia, questa revisione è stata flebile rispetto alle reali esigenze del mercato del lavoro interno poiché, nonostante le varie crisi economiche che si sono susseguite (scoppio della "bubble economy" del 1992, i successivi "lost decades", crisi finanziaria del 2008, terremoto del Tōhoku del 2011 e ora pandemia di Covid-19), non ha mai smesso di richiedere manodopera a basso costo, flessibile e generalmente poco qualificata. Ciò è particolarmente pressante per le numerose PMI che compongono il sistema produttivo nazionale (OECD 2020; Toyonaga 2021), ovvero le entità economiche più esposte alle difficoltà innescate dalla globalizzazione (Hamaguchi 2019). La questione è stata nuovamente ravvivata dall'ennesimo emendamento dell'ICRRA di fine 2018 che, per la prima volta nella storia contemporanea del Giappone, ha aperto una porta d'ingresso (legale) ai lavoratori stranieri di media e bassa qualifica, modificando potenzialmente il quasi costante immobilismo del governo di Tōkyō sulla questione e aprendo così a un processo trasformativo sistemico potenzialmente più ampio (Hamaguchi 2019). Ci si chiede, a questo punto, se le tendenze trasformative in atto siano un innesco sufficiente per l'avvio (o la prosecuzione) di un processo convergente verso altri sistemi politico-economici, con particolare riferimento al sistema italiano per le analogie strutturali sopra citate. Sebbene sia da escludere una vera e propria convergenza, è interessante capire se esista almeno un processo trasformativo, anche in fase embrionale, che possa rispondere alle esigenze delle PMI e del più ampio mercato del lavoro giapponese, sradicando così l'immobilismo politico e la velata ostilità al cambiamento. Attraverso una serie di interviste condotte con gli attori delle relazioni industriali italiane e giapponesi, è stato possibile comprendere la situazione attuale dei rispettivi mercati del lavoro sui temi legati ai cambiamenti sistemici e al ruolo dei lavoratori migranti. In particolare, attraverso il dialogo diretto con attori privilegiati delle relazioni industriali giapponesi, è possibile comprendere la presenza di un'ipotetica tendenza trasformativa, potenzialmente convergente con i paesi EMM, soprattutto sul tema delle politiche migratorie in funzione delle esigenze del mercato del lavoro interno. I risultati della ricerca, contrariamente alle aspettative iniziali, hanno quasi completamente smentito l'ipotesi di una prossima trasformazione all'interno del mercato del lavoro giapponese, senza tuttavia negare la necessità strutturale di una nuova forza lavoro flessibile, a basso costo e poco qualificata. Sono la portata e la necessità (percepita) di un'ulteriore spinta liberalizzatrice nelle politiche migratorie ad essere ancora limitate. Se esiste una trasformazione, e un'eventuale convergenza sistemica, essa sta avvenendo a una velocità quasi impercettibile, fuori dalla vista (e dall'interesse) dei principali attori socio-economici istituzionali del Giappone.
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