Nella raccolta delle poesie di Gregorio Nazianzeno curata dal Caillau e riproposta nei volumi 37-38 della Patrologia graeca, il carme II,1,19 figura tra i Poemata de seipso, a motivo della sua forte componente autobiografica. Il Cappadoce dedica gran parte dei 104 esametri che lo costituiscono a ripercorrere le vicende della propria vita, sicché esso risulta di notevole importanza per ricostruire il periodo successivo al suo ritorno da Costantinopoli, anni segnati da contrasti a Nazianzo, da sofferenze fisiche e psicologiche. Dopo l’abbandono della cattedra episcopale Gregorio tornò, infatti, nella diocesi paterna, ma, anziché occuparsene personalmente, la affidò al presbitero Cledonio e si ritirò nella sua tenuta di Arianzo. Le proteste dei concittadini – che lo accusavano di disprezzare una comunità troppo modesta – e il miglioramento delle sue condizioni di salute lo convinsero ad assumere la guida della diocesi alla fine del 382 e in questo contesto compose II,1,19, summa della propria vita e momento di condivisione del proprio dolore. Alla natura autobiografica del carme si affianca un’evidente impostazione trenodica, poiché i versi sono percorsi dall’incessante lamento rivolto dal poeta a Cristo per le afflizioni che lo hanno colpito; un componimento autobiografico-elegiaco, dunque, in cui l’amara consapevolezza dei dolori esperiti fornisce a Gregorio il pretesto per giustificare il proprio operato. Il carme è tradito in trenta manoscritti databili tra l’XI e il XVI secolo, di cui sedici risultano fondamentali per la constitutio textus; i testimoni possono essere ripartiti in due gruppi risalenti agli esemplari perduti Σ e Δ, caratterizzati da due diverse parafrasi che si sono trasmesse, per intero o saltuariamente, in gran parte dei loro discendenti. Nella ricostruzione del testo del carme si è tenuto conto anche della tradizione a stampa, a partire dall’editio princeps di Aldo Manuzio, realizzata nel 1504, fino all’edizione più recente di Christos Simelidis, risalente al 2009. L’edizione critica del componimento è accompagnata da un ampio commento, da cui emerge quella compresenza di tradizione classica e cristiana tipica degli scritti gregoriani. Il poeta rivela la propria abilità retorica e descrive il dolore utilizzando gli strumenti della sua cultura: immagini e lemmi ispirati alla tradizione pagana – in primis Omero – gli permettono di ricondurre la propria sofferenza entro una fitta trama di allusioni letterarie. Nello stesso tempo, tuttavia, l’esigenza di garantirsi un ricordo presso i posteri e la speranza di ottenere la salvezza spingono il Cappadoce ad affiancarsi e a sostituirsi a figure bibliche di uomini che hanno vinto i dolori – quali Giobbe, Giona, i tre pubblicani, i tre paralitici e i tre risorti –, fino a proporsi come nuovo modello di afflizione e sopportazione per tutti i cristiani. Il lavoro è corredato da tre appendici, consistenti nell’edizione critica della sezione dedicata a II,1,19 del Commentario di Cosma di Gerusalemme, di tre parafrasi anonime bizantine e della versione latina inedita redatta da Giacomo Oliva nel 1584 sotto la spinta del cardinale Guglielmo Sirleto. Per quanto concerne il Commentario, tramandato da un unico manoscritto del XII secolo, il Gerosolimitano ha esaminato soltanto nove versi di contenuto scritturistico, una scelta che riflette la sua familiarità con il testo sacro. Le tre parafrasi bizantine hanno fornito ulteriore supporto alla classificazione dei manoscritti e alla comprensione del testo: la prima è tradita da un unico testimone dell’XI secolo, che non contiene i versi dei carmi e trasmette soltanto l’esegesi; la seconda e la terza caratterizzano, rispettivamente, le raccolte Δ e Σ. La traduzione latina del carme realizzata da Giacomo Oliva è piuttosto modesta sul piano letterario e non fornisce contributi significativi alla comprensione del testo, che, anzi, di tanto in tanto viene stravolto nel contenuto; l’opera, tuttavia, testimonia il grande interesse per gli scritti del Cappadoce, specialmente nell’età della Controriforma. Nella ricostruzione e nella spiegazione del carme si è tenuto conto anche della versione siriaca (in traduzione italiana) tramandata nel Vaticanus Syriacus 105 ed edita da Bollig nel 1895. In conclusione, il presente lavoro vuole porsi in continuità con le edizioni commentate dei carmi gregoriani apparse a partire dal 1953 per impulso di Heinz Martin Werhahn, autore della prima edizione con commento di un singolo componimento del Cappadoce (carm. I,2,8). Mediante l’esame della tradizione diretta e indiretta, manoscritta e a stampa, l’indagine relativa a II,1,19 può contribuire a sanare la grave mancanza di un’edizione del corpus poetico del Nazianzeno lamentata, già nel 1905, dal Wilamowitz.

Nella raccolta delle poesie di Gregorio Nazianzeno curata dal Caillau e riproposta nei volumi 37-38 della Patrologia graeca, il carme II,1,19 figura tra i Poemata de seipso, a motivo della sua forte componente autobiografica. Il Cappadoce dedica gran parte dei 104 esametri che lo costituiscono a ripercorrere le vicende della propria vita, sicché esso risulta di notevole importanza per ricostruire il periodo successivo al suo ritorno da Costantinopoli, anni segnati da contrasti a Nazianzo, da sofferenze fisiche e psicologiche. Dopo l’abbandono della cattedra episcopale Gregorio tornò, infatti, nella diocesi paterna, ma, anziché occuparsene personalmente, la affidò al presbitero Cledonio e si ritirò nella sua tenuta di Arianzo. Le proteste dei concittadini – che lo accusavano di disprezzare una comunità troppo modesta – e il miglioramento delle sue condizioni di salute lo convinsero ad assumere la guida della diocesi alla fine del 382 e in questo contesto compose II,1,19, summa della propria vita e momento di condivisione del proprio dolore. Alla natura autobiografica del carme si affianca un’evidente impostazione trenodica, poiché i versi sono percorsi dall’incessante lamento rivolto dal poeta a Cristo per le afflizioni che lo hanno colpito; un componimento autobiografico-elegiaco, dunque, in cui l’amara consapevolezza dei dolori esperiti fornisce a Gregorio il pretesto per giustificare il proprio operato. Il carme è tradito in trenta manoscritti databili tra l’XI e il XVI secolo, di cui sedici risultano fondamentali per la constitutio textus; i testimoni possono essere ripartiti in due gruppi risalenti agli esemplari perduti Σ e Δ, caratterizzati da due diverse parafrasi che si sono trasmesse, per intero o saltuariamente, in gran parte dei loro discendenti. Nella ricostruzione del testo del carme si è tenuto conto anche della tradizione a stampa, a partire dall’editio princeps di Aldo Manuzio, realizzata nel 1504, fino all’edizione più recente di Christos Simelidis, risalente al 2009. L’edizione critica del componimento è accompagnata da un ampio commento, da cui emerge quella compresenza di tradizione classica e cristiana tipica degli scritti gregoriani. Il poeta rivela la propria abilità retorica e descrive il dolore utilizzando gli strumenti della sua cultura: immagini e lemmi ispirati alla tradizione pagana – in primis Omero – gli permettono di ricondurre la propria sofferenza entro una fitta trama di allusioni letterarie. Nello stesso tempo, tuttavia, l’esigenza di garantirsi un ricordo presso i posteri e la speranza di ottenere la salvezza spingono il Cappadoce ad affiancarsi e a sostituirsi a figure bibliche di uomini che hanno vinto i dolori – quali Giobbe, Giona, i tre pubblicani, i tre paralitici e i tre risorti –, fino a proporsi come nuovo modello di afflizione e sopportazione per tutti i cristiani. Il lavoro è corredato da tre appendici, consistenti nell’edizione critica della sezione dedicata a II,1,19 del Commentario di Cosma di Gerusalemme, di tre parafrasi anonime bizantine e della versione latina inedita redatta da Giacomo Oliva nel 1584 sotto la spinta del cardinale Guglielmo Sirleto. Per quanto concerne il Commentario, tramandato da un unico manoscritto del XII secolo, il Gerosolimitano ha esaminato soltanto nove versi di contenuto scritturistico, una scelta che riflette la sua familiarità con il testo sacro. Le tre parafrasi bizantine hanno fornito ulteriore supporto alla classificazione dei manoscritti e alla comprensione del testo: la prima è tradita da un unico testimone dell’XI secolo, che non contiene i versi dei carmi e trasmette soltanto l’esegesi; la seconda e la terza caratterizzano, rispettivamente, le raccolte Δ e Σ. La traduzione latina del carme realizzata da Giacomo Oliva è piuttosto modesta sul piano letterario e non fornisce contributi significativi alla comprensione del testo, che, anzi, di tanto in tanto viene stravolto nel contenuto; l’opera, tuttavia, testimonia il grande interesse per gli scritti del Cappadoce, specialmente nell’età della Controriforma. Nella ricostruzione e nella spiegazione del carme si è tenuto conto anche della versione siriaca (in traduzione italiana) tramandata nel Vaticanus Syriacus 105 ed edita da Bollig nel 1895. In conclusione, il presente lavoro vuole porsi in continuità con le edizioni commentate dei carmi gregoriani apparse a partire dal 1953 per impulso di Heinz Martin Werhahn, autore della prima edizione con commento di un singolo componimento del Cappadoce (carm. I,2,8). Mediante l’esame della tradizione diretta e indiretta, manoscritta e a stampa, l’indagine relativa a II,1,19 può contribuire a sanare la grave mancanza di un’edizione del corpus poetico del Nazianzeno lamentata, già nel 1905, dal Wilamowitz.

GREGORIO NAZIANZENO Εἰς ἑαυτὸν μετὰ τὴν ἐπάνοδον [carm. II,1,19] Introduzione, testo critico, commento e appendici

RAGGIUNTI ANGELICA
2021-01-01

Abstract

Nella raccolta delle poesie di Gregorio Nazianzeno curata dal Caillau e riproposta nei volumi 37-38 della Patrologia graeca, il carme II,1,19 figura tra i Poemata de seipso, a motivo della sua forte componente autobiografica. Il Cappadoce dedica gran parte dei 104 esametri che lo costituiscono a ripercorrere le vicende della propria vita, sicché esso risulta di notevole importanza per ricostruire il periodo successivo al suo ritorno da Costantinopoli, anni segnati da contrasti a Nazianzo, da sofferenze fisiche e psicologiche. Dopo l’abbandono della cattedra episcopale Gregorio tornò, infatti, nella diocesi paterna, ma, anziché occuparsene personalmente, la affidò al presbitero Cledonio e si ritirò nella sua tenuta di Arianzo. Le proteste dei concittadini – che lo accusavano di disprezzare una comunità troppo modesta – e il miglioramento delle sue condizioni di salute lo convinsero ad assumere la guida della diocesi alla fine del 382 e in questo contesto compose II,1,19, summa della propria vita e momento di condivisione del proprio dolore. Alla natura autobiografica del carme si affianca un’evidente impostazione trenodica, poiché i versi sono percorsi dall’incessante lamento rivolto dal poeta a Cristo per le afflizioni che lo hanno colpito; un componimento autobiografico-elegiaco, dunque, in cui l’amara consapevolezza dei dolori esperiti fornisce a Gregorio il pretesto per giustificare il proprio operato. Il carme è tradito in trenta manoscritti databili tra l’XI e il XVI secolo, di cui sedici risultano fondamentali per la constitutio textus; i testimoni possono essere ripartiti in due gruppi risalenti agli esemplari perduti Σ e Δ, caratterizzati da due diverse parafrasi che si sono trasmesse, per intero o saltuariamente, in gran parte dei loro discendenti. Nella ricostruzione del testo del carme si è tenuto conto anche della tradizione a stampa, a partire dall’editio princeps di Aldo Manuzio, realizzata nel 1504, fino all’edizione più recente di Christos Simelidis, risalente al 2009. L’edizione critica del componimento è accompagnata da un ampio commento, da cui emerge quella compresenza di tradizione classica e cristiana tipica degli scritti gregoriani. Il poeta rivela la propria abilità retorica e descrive il dolore utilizzando gli strumenti della sua cultura: immagini e lemmi ispirati alla tradizione pagana – in primis Omero – gli permettono di ricondurre la propria sofferenza entro una fitta trama di allusioni letterarie. Nello stesso tempo, tuttavia, l’esigenza di garantirsi un ricordo presso i posteri e la speranza di ottenere la salvezza spingono il Cappadoce ad affiancarsi e a sostituirsi a figure bibliche di uomini che hanno vinto i dolori – quali Giobbe, Giona, i tre pubblicani, i tre paralitici e i tre risorti –, fino a proporsi come nuovo modello di afflizione e sopportazione per tutti i cristiani. Il lavoro è corredato da tre appendici, consistenti nell’edizione critica della sezione dedicata a II,1,19 del Commentario di Cosma di Gerusalemme, di tre parafrasi anonime bizantine e della versione latina inedita redatta da Giacomo Oliva nel 1584 sotto la spinta del cardinale Guglielmo Sirleto. Per quanto concerne il Commentario, tramandato da un unico manoscritto del XII secolo, il Gerosolimitano ha esaminato soltanto nove versi di contenuto scritturistico, una scelta che riflette la sua familiarità con il testo sacro. Le tre parafrasi bizantine hanno fornito ulteriore supporto alla classificazione dei manoscritti e alla comprensione del testo: la prima è tradita da un unico testimone dell’XI secolo, che non contiene i versi dei carmi e trasmette soltanto l’esegesi; la seconda e la terza caratterizzano, rispettivamente, le raccolte Δ e Σ. La traduzione latina del carme realizzata da Giacomo Oliva è piuttosto modesta sul piano letterario e non fornisce contributi significativi alla comprensione del testo, che, anzi, di tanto in tanto viene stravolto nel contenuto; l’opera, tuttavia, testimonia il grande interesse per gli scritti del Cappadoce, specialmente nell’età della Controriforma. Nella ricostruzione e nella spiegazione del carme si è tenuto conto anche della versione siriaca (in traduzione italiana) tramandata nel Vaticanus Syriacus 105 ed edita da Bollig nel 1895. In conclusione, il presente lavoro vuole porsi in continuità con le edizioni commentate dei carmi gregoriani apparse a partire dal 1953 per impulso di Heinz Martin Werhahn, autore della prima edizione con commento di un singolo componimento del Cappadoce (carm. I,2,8). Mediante l’esame della tradizione diretta e indiretta, manoscritta e a stampa, l’indagine relativa a II,1,19 può contribuire a sanare la grave mancanza di un’edizione del corpus poetico del Nazianzeno lamentata, già nel 1905, dal Wilamowitz.
2021
Nella raccolta delle poesie di Gregorio Nazianzeno curata dal Caillau e riproposta nei volumi 37-38 della Patrologia graeca, il carme II,1,19 figura tra i Poemata de seipso, a motivo della sua forte componente autobiografica. Il Cappadoce dedica gran parte dei 104 esametri che lo costituiscono a ripercorrere le vicende della propria vita, sicché esso risulta di notevole importanza per ricostruire il periodo successivo al suo ritorno da Costantinopoli, anni segnati da contrasti a Nazianzo, da sofferenze fisiche e psicologiche. Dopo l’abbandono della cattedra episcopale Gregorio tornò, infatti, nella diocesi paterna, ma, anziché occuparsene personalmente, la affidò al presbitero Cledonio e si ritirò nella sua tenuta di Arianzo. Le proteste dei concittadini – che lo accusavano di disprezzare una comunità troppo modesta – e il miglioramento delle sue condizioni di salute lo convinsero ad assumere la guida della diocesi alla fine del 382 e in questo contesto compose II,1,19, summa della propria vita e momento di condivisione del proprio dolore. Alla natura autobiografica del carme si affianca un’evidente impostazione trenodica, poiché i versi sono percorsi dall’incessante lamento rivolto dal poeta a Cristo per le afflizioni che lo hanno colpito; un componimento autobiografico-elegiaco, dunque, in cui l’amara consapevolezza dei dolori esperiti fornisce a Gregorio il pretesto per giustificare il proprio operato. Il carme è tradito in trenta manoscritti databili tra l’XI e il XVI secolo, di cui sedici risultano fondamentali per la constitutio textus; i testimoni possono essere ripartiti in due gruppi risalenti agli esemplari perduti Σ e Δ, caratterizzati da due diverse parafrasi che si sono trasmesse, per intero o saltuariamente, in gran parte dei loro discendenti. Nella ricostruzione del testo del carme si è tenuto conto anche della tradizione a stampa, a partire dall’editio princeps di Aldo Manuzio, realizzata nel 1504, fino all’edizione più recente di Christos Simelidis, risalente al 2009. L’edizione critica del componimento è accompagnata da un ampio commento, da cui emerge quella compresenza di tradizione classica e cristiana tipica degli scritti gregoriani. Il poeta rivela la propria abilità retorica e descrive il dolore utilizzando gli strumenti della sua cultura: immagini e lemmi ispirati alla tradizione pagana – in primis Omero – gli permettono di ricondurre la propria sofferenza entro una fitta trama di allusioni letterarie. Nello stesso tempo, tuttavia, l’esigenza di garantirsi un ricordo presso i posteri e la speranza di ottenere la salvezza spingono il Cappadoce ad affiancarsi e a sostituirsi a figure bibliche di uomini che hanno vinto i dolori – quali Giobbe, Giona, i tre pubblicani, i tre paralitici e i tre risorti –, fino a proporsi come nuovo modello di afflizione e sopportazione per tutti i cristiani. Il lavoro è corredato da tre appendici, consistenti nell’edizione critica della sezione dedicata a II,1,19 del Commentario di Cosma di Gerusalemme, di tre parafrasi anonime bizantine e della versione latina inedita redatta da Giacomo Oliva nel 1584 sotto la spinta del cardinale Guglielmo Sirleto. Per quanto concerne il Commentario, tramandato da un unico manoscritto del XII secolo, il Gerosolimitano ha esaminato soltanto nove versi di contenuto scritturistico, una scelta che riflette la sua familiarità con il testo sacro. Le tre parafrasi bizantine hanno fornito ulteriore supporto alla classificazione dei manoscritti e alla comprensione del testo: la prima è tradita da un unico testimone dell’XI secolo, che non contiene i versi dei carmi e trasmette soltanto l’esegesi; la seconda e la terza caratterizzano, rispettivamente, le raccolte Δ e Σ. La traduzione latina del carme realizzata da Giacomo Oliva è piuttosto modesta sul piano letterario e non fornisce contributi significativi alla comprensione del testo, che, anzi, di tanto in tanto viene stravolto nel contenuto; l’opera, tuttavia, testimonia il grande interesse per gli scritti del Cappadoce, specialmente nell’età della Controriforma. Nella ricostruzione e nella spiegazione del carme si è tenuto conto anche della versione siriaca (in traduzione italiana) tramandata nel Vaticanus Syriacus 105 ed edita da Bollig nel 1895. In conclusione, il presente lavoro vuole porsi in continuità con le edizioni commentate dei carmi gregoriani apparse a partire dal 1953 per impulso di Heinz Martin Werhahn, autore della prima edizione con commento di un singolo componimento del Cappadoce (carm. I,2,8). Mediante l’esame della tradizione diretta e indiretta, manoscritta e a stampa, l’indagine relativa a II,1,19 può contribuire a sanare la grave mancanza di un’edizione del corpus poetico del Nazianzeno lamentata, già nel 1905, dal Wilamowitz.
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