Negli ultimi decenni è cresciuta una nuova consapevolezza rispetto alle atrocità su scala globale che le donne subiscono nel corso dei conflitti armati. Tradizionalmente le donne non erano parte attiva in guerra, ovvero, secondo la maggior parte delle legislazioni nazionali, non avevano potere decisionale sulla guerra in quanto non potevano arruolarsi come combattenti né, tantomeno, rappresentare lo stato nelle alte cariche militari. Tuttavia, le donne hanno sempre sperimentato la guerra. In particolare, sono sempre state sottoposte a diverse forme di violenza durante i conflitti armati. Nonostante la gravità delle offese subite, per secoli la realtà delle donne durante i conflitti armati è rimasta relativamente invisibile nelle legislazioni nazionali e nel diritto internazionale. I casi di violenza contro le donne in guerra sono stati considerati incidenti o inevitabili conseguenze del conflitto e i principali strumenti giuridici del diritto internazionale umanitario non facevano alcuna menzione della protezione del soggetto femminile. I pochi riferimenti espliciti allo stupro commesso in contesti di conflitto armato hanno qualificato tale atto come un crimine contro "l'onore" piuttosto che una violazione dell’integrità personale. Oggi il diritto internazionale umanitario (DIU), il diritto internazionale dei diritti umani e il diritto penale internazionale vietano qualsiasi forma di violenza sessuale connessa a situazioni di conflitto. Tuttavia, nonostante il processo di criminalizzazione di tali atti di violenza, le atrocità contro le donne continuano ad essere diffuse negli attuali conflitti armati. Sulla base di quanto finora affermato, s’intende strutturare il progetto in due parti. La tesi si compone di due parti. La parte I, che comprende i capitoli da uno a tre, fornisce il background teorico, esplorando la prospettiva di genere alla base delle critiche femministe al DIU, per poi passare all'analisi del quadro giuridico che regola la violenza contro le donne in tempo di guerra. La Parte II, capitoli quattro e cinque, si occupa della fase postbellica, ovvero del trattamento giuridico della violenza contro le donne con riferimento al problema delle riparazioni delle vittime. La scelta di strutturare la tesi in due parti, trattando argomenti apparentemente distanti tra loro, risponde alla necessità di indagare fino a che punto il DIU accoglie o può accogliere un approccio gender-sensitive nella fase di ius in bello prima, ovvero la fase delle ostilità, e nella fase post bellum, cioè la fase successiva alla cessazione delle ostilità. Parte prima Al fine di fornire il quadro teorico entro cui opera l'interpretazione gender-sensitive dei trattati sul DIU, il primo capitolo esplora alcuni concetti chiave per un'analisi di genere delle norme del DIU e presenta le critiche femministe al regime di DIU. Si intende in tal modo ragionare sui limiti del DIU con riferimento alla protezione delle donne in contesti di conflitti armati e chiarire se queste debolezze possano essere eventualmente superate attraverso una rinnovata interpretazione delle stesse norme. In definitiva, l'obiettivo è posizionare questa tesi all'interno del più ampio dibattito della critica femminista al DIU. Il capitolo secondo tratta dell'analisi normativa del regime di DIU, ovvero le Convenzioni dell'Aia, le Convenzioni di Ginevra del 1949 e i Protocolli aggiuntivi del 1977, che disciplinano la vita delle donne civili in situazioni di conflitto armato. Il capitolo affronta la questione se sia possibile reinterpretare le norme esistenti in materia di DIU in un modo che possa rispondere adeguatamente ai problemi attuali che le donne affrontano in contesti di conflitto. A tal fine, è preferibile un "approccio pratico". Nell'analizzare il numero di norme designate a regolare la violenza contro le donne nei conflitti, le disposizioni vengono “messe alla prova” attraverso l'uso di recenti casi concreti che mettono in discussione la portata della loro applicabilità alle donne civili. Il modo in cui le disposizioni reagiscono allo “stress” interpretativo può influire sul livello di protezione giuridica di cui le donne possono beneficiare. L'indagine mira a stabilire la fattibilità di reinterpretare alcune parti del DIU mediante un approccio più sensibile al genere. Nel terzo capitolo si richiama l'attenzione sull'esame dell'articolo 27 della IV Convenzione di Ginevra, relativo al divieto della violenza sessuale contro le donne nei conflitti armati. Due sono le ragioni principali che spingono a concentrarsi in modo preminente su questa disposizione. In primo luogo, l'articolo regola la forma più comune di violenza contro le donne commessa durante i conflitti armati, ovvero tutti gli atti che hanno una connotazione sessuale. Date le frequenti implicazioni di genere degli atti di violenza sessuale contro le donne, l'analisi dell'articolo può rivelare aspetti significativi sulla concezione delle donne nel DIU. In secondo luogo, le internazionaliste femministe hanno dimostrato i limiti della norma utilizzando una prospettiva di genere. Dunque, un'indagine sulla possibilità di interpretare in chiave di genere la norma farà luce sulla questione circa la possibilità che i limiti delle norme possano essere superati interpretativamente al fine di assicurare una migliore protezione alle donne dalla violenza sessuale legata al conflitto. Parte seconda Il capitolo quarto, il primo della Parte II, fa riferimento alla fase post bellum, analizzando in modo specifico il meccanismo di riparazione per le violazioni delle norme di DIU e strutturando una panoramica del quadro giuridico dell'obbligo dello Stato di riparare le violazioni delle disposizioni sul diritto internazionale umanitario. L'idea di fondo è che il sistema delle riparazioni non si basa su un approccio orientato alla vittima ed è stato riconosciuto che ciò incide in modo particolare sulle donne. Questa analisi costituisce il punto di partenza per il successivo esame della questione se, ed eventualmente come, la categoria di genere possa avere una rilevanza nella determinazione delle forme più appropriate di riparazione in casi di violenza contro le donne legata ai conflitti armati. Infine, il capitolo cinque analizza un caso specifico di violenza contro le donne durante un conflitto, vale a dire il caso delle "donne di conforto ", relativo alle migliaia di donne provenienti da Corea, Filippine, Indonesia e Cina costrette a un sistema di schiavitù sessuale nei bordelli militari istituiti dal governo giapponese per il “ristoro” delle truppe nipponiche durante la seconda guerra mondiale. Il caso, uno dei più controversi casi di riparazione in corso per crimini contro le donne, offre non solo numerose questioni giuridiche, bensì anche un esempio paradigmatico per la discussione sulla rilevanza delle forme di riparazione rispetto al tipo di danno subito dalle vittime. In particolare, il caso delle "donne di conforto" mostra che il risarcimento in forma di compensazione finanziaria, la forma di riparazione attualmente privilegiata nel sistema di diritto internazionale, non sempre rappresenta la soluzione migliore per le vittime. Le donne sopravvissute sembrano infatti prediligere scuse ufficiali o la costruzione di monumenti commemorativi (come riportato dalle numerose statue di donne apparse, nonostante le proteste delle autorità giapponesi, davanti all'ambasciata e ai consolati giapponesi in Corea del Sud). Ciò solleva la questione se, ed eventualmente come, una prospettiva orientata al genere possa influenzare la scelta nelle forme di riparazione per le vittime di violazioni del DIU.

VIOLENCE AGAINST WOMEN IN ARMED CONFLICT

RACHELE MARCONI
2021-01-01

Abstract

Negli ultimi decenni è cresciuta una nuova consapevolezza rispetto alle atrocità su scala globale che le donne subiscono nel corso dei conflitti armati. Tradizionalmente le donne non erano parte attiva in guerra, ovvero, secondo la maggior parte delle legislazioni nazionali, non avevano potere decisionale sulla guerra in quanto non potevano arruolarsi come combattenti né, tantomeno, rappresentare lo stato nelle alte cariche militari. Tuttavia, le donne hanno sempre sperimentato la guerra. In particolare, sono sempre state sottoposte a diverse forme di violenza durante i conflitti armati. Nonostante la gravità delle offese subite, per secoli la realtà delle donne durante i conflitti armati è rimasta relativamente invisibile nelle legislazioni nazionali e nel diritto internazionale. I casi di violenza contro le donne in guerra sono stati considerati incidenti o inevitabili conseguenze del conflitto e i principali strumenti giuridici del diritto internazionale umanitario non facevano alcuna menzione della protezione del soggetto femminile. I pochi riferimenti espliciti allo stupro commesso in contesti di conflitto armato hanno qualificato tale atto come un crimine contro "l'onore" piuttosto che una violazione dell’integrità personale. Oggi il diritto internazionale umanitario (DIU), il diritto internazionale dei diritti umani e il diritto penale internazionale vietano qualsiasi forma di violenza sessuale connessa a situazioni di conflitto. Tuttavia, nonostante il processo di criminalizzazione di tali atti di violenza, le atrocità contro le donne continuano ad essere diffuse negli attuali conflitti armati. Sulla base di quanto finora affermato, s’intende strutturare il progetto in due parti. La tesi si compone di due parti. La parte I, che comprende i capitoli da uno a tre, fornisce il background teorico, esplorando la prospettiva di genere alla base delle critiche femministe al DIU, per poi passare all'analisi del quadro giuridico che regola la violenza contro le donne in tempo di guerra. La Parte II, capitoli quattro e cinque, si occupa della fase postbellica, ovvero del trattamento giuridico della violenza contro le donne con riferimento al problema delle riparazioni delle vittime. La scelta di strutturare la tesi in due parti, trattando argomenti apparentemente distanti tra loro, risponde alla necessità di indagare fino a che punto il DIU accoglie o può accogliere un approccio gender-sensitive nella fase di ius in bello prima, ovvero la fase delle ostilità, e nella fase post bellum, cioè la fase successiva alla cessazione delle ostilità. Parte prima Al fine di fornire il quadro teorico entro cui opera l'interpretazione gender-sensitive dei trattati sul DIU, il primo capitolo esplora alcuni concetti chiave per un'analisi di genere delle norme del DIU e presenta le critiche femministe al regime di DIU. Si intende in tal modo ragionare sui limiti del DIU con riferimento alla protezione delle donne in contesti di conflitti armati e chiarire se queste debolezze possano essere eventualmente superate attraverso una rinnovata interpretazione delle stesse norme. In definitiva, l'obiettivo è posizionare questa tesi all'interno del più ampio dibattito della critica femminista al DIU. Il capitolo secondo tratta dell'analisi normativa del regime di DIU, ovvero le Convenzioni dell'Aia, le Convenzioni di Ginevra del 1949 e i Protocolli aggiuntivi del 1977, che disciplinano la vita delle donne civili in situazioni di conflitto armato. Il capitolo affronta la questione se sia possibile reinterpretare le norme esistenti in materia di DIU in un modo che possa rispondere adeguatamente ai problemi attuali che le donne affrontano in contesti di conflitto. A tal fine, è preferibile un "approccio pratico". Nell'analizzare il numero di norme designate a regolare la violenza contro le donne nei conflitti, le disposizioni vengono “messe alla prova” attraverso l'uso di recenti casi concreti che mettono in discussione la portata della loro applicabilità alle donne civili. Il modo in cui le disposizioni reagiscono allo “stress” interpretativo può influire sul livello di protezione giuridica di cui le donne possono beneficiare. L'indagine mira a stabilire la fattibilità di reinterpretare alcune parti del DIU mediante un approccio più sensibile al genere. Nel terzo capitolo si richiama l'attenzione sull'esame dell'articolo 27 della IV Convenzione di Ginevra, relativo al divieto della violenza sessuale contro le donne nei conflitti armati. Due sono le ragioni principali che spingono a concentrarsi in modo preminente su questa disposizione. In primo luogo, l'articolo regola la forma più comune di violenza contro le donne commessa durante i conflitti armati, ovvero tutti gli atti che hanno una connotazione sessuale. Date le frequenti implicazioni di genere degli atti di violenza sessuale contro le donne, l'analisi dell'articolo può rivelare aspetti significativi sulla concezione delle donne nel DIU. In secondo luogo, le internazionaliste femministe hanno dimostrato i limiti della norma utilizzando una prospettiva di genere. Dunque, un'indagine sulla possibilità di interpretare in chiave di genere la norma farà luce sulla questione circa la possibilità che i limiti delle norme possano essere superati interpretativamente al fine di assicurare una migliore protezione alle donne dalla violenza sessuale legata al conflitto. Parte seconda Il capitolo quarto, il primo della Parte II, fa riferimento alla fase post bellum, analizzando in modo specifico il meccanismo di riparazione per le violazioni delle norme di DIU e strutturando una panoramica del quadro giuridico dell'obbligo dello Stato di riparare le violazioni delle disposizioni sul diritto internazionale umanitario. L'idea di fondo è che il sistema delle riparazioni non si basa su un approccio orientato alla vittima ed è stato riconosciuto che ciò incide in modo particolare sulle donne. Questa analisi costituisce il punto di partenza per il successivo esame della questione se, ed eventualmente come, la categoria di genere possa avere una rilevanza nella determinazione delle forme più appropriate di riparazione in casi di violenza contro le donne legata ai conflitti armati. Infine, il capitolo cinque analizza un caso specifico di violenza contro le donne durante un conflitto, vale a dire il caso delle "donne di conforto ", relativo alle migliaia di donne provenienti da Corea, Filippine, Indonesia e Cina costrette a un sistema di schiavitù sessuale nei bordelli militari istituiti dal governo giapponese per il “ristoro” delle truppe nipponiche durante la seconda guerra mondiale. Il caso, uno dei più controversi casi di riparazione in corso per crimini contro le donne, offre non solo numerose questioni giuridiche, bensì anche un esempio paradigmatico per la discussione sulla rilevanza delle forme di riparazione rispetto al tipo di danno subito dalle vittime. In particolare, il caso delle "donne di conforto" mostra che il risarcimento in forma di compensazione finanziaria, la forma di riparazione attualmente privilegiata nel sistema di diritto internazionale, non sempre rappresenta la soluzione migliore per le vittime. Le donne sopravvissute sembrano infatti prediligere scuse ufficiali o la costruzione di monumenti commemorativi (come riportato dalle numerose statue di donne apparse, nonostante le proteste delle autorità giapponesi, davanti all'ambasciata e ai consolati giapponesi in Corea del Sud). Ciò solleva la questione se, ed eventualmente come, una prospettiva orientata al genere possa influenzare la scelta nelle forme di riparazione per le vittime di violazioni del DIU.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11393/284788
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