Attraverso la ricostruzione delle risposte giuridiche alla «grande depressione» nei diversi contesti italiano e statunitense, questo lavoro aspira a individuare l’emersione di problemi giuridici tendenzialmente globali e l’affermazione di un discorso giuridico volto in entrambi i Paesi a ripensare le dinamiche tradizionali economico-giuridiche e in particolare di relazione tra il potere statuale e la libertà economica individuale. A partire dagli anni Trenta, infatti, il regime fascista inaugurò una serie di interventi volti a ordinare l’economia italiana e permettere, oltre al superamento della depressione economica, il compiersi degli obiettivi politici del regime stesso. La creazione di peculiari enti pubblici economici incaricati di risolvere la confusione del credito e del controllo dei settori produttivi più rilevanti (IMI, IRI), l’emanazione di una legislazione sulla produzione industriale potenzialmente molto invasiva da parte dei pubblici poteri e, infine, una riforma complessiva del sistema bancario e creditizio, rappresentarono per la scienza giuridica italiana occasioni di forte ripensamento di istituti e categorie tradizionali, la cui crisi era cominciata ad emergere già in precedenza a seguito del primo conflitto mondiale. Allo stesso modo il crollo di Wall Street e la conseguente emergenza economica avevano fatto sorgere negli Stati Uniti un’identica esigenza di ripensamento dei rapporti tra pubblici poteri e iniziativa economica privata: attraverso il riferimento all’eccezionalità della stagione deflattiva in corso, si ambiva infatti ad affermare un definitivo abbandono delle teorie economiche ma anche costituzionali del laissez-faire, in favore di nuove e diverse concezioni delle relazioni e non più separazioni tra pubblico e privato. In particolare, durante gli anni del New Deal, la creazione di administrative agencies deputate a dare ordine e indirizzo sia al settore industriale e produttivo (è il caso della NRA), che a quello finanziario e creditizio (come la RFC, e la SEC), posero fortemente in discussione i tradizionali limiti e bilanciamenti della Costituzione americana, e offrirono lo stimolo per l’elaborazione di un ampio ventaglio di soluzioni teoriche tutte potenzialmente concorrenti alla trasformazione economico-costituzionale del Paese. In tal senso, a unificare non solo astrattamente le due esperienze indagate del fascismo italiano e del New Deal americano contribuì la centralità assunta nel dibattito teorico-giuridico dal corporativismo, che finì per rappresentare un peculiare vettore di unificazione delle riflessioni giuridiche ed economiche di larga parte del mondo occidentale nel corso degli anni Trenta. Il corporativismo, infatti, si dimostrò un passe-partout ideologico capace di prestarsi a molteplici declinazioni, realizzate e realizzabili, con conseguenze molto diverse tra loro ma tutte egualmente accomunate da un’identica esigenza di trovare una soluzione che, all’interno dello Stato, mettesse ordine tra gli interessi plurali emergenti dalla società: un’emersione, quella del sociale, non più semplicisticamente risolvibile attraverso i noti schemi teorici liberali e attraverso (o almeno non solo) le tradizionali dinamiche parlamentari. Il corporativismo appare così, un “laboratorio” teorico di ripensamento di categorie e strumenti giuridici che contribuì al definitivo compimento di quel passaggio al Novecento post-moderno nel tentativo di mettere in disparte l’importante e “ingombrante” passato-presente rappresentato dalla modernità liberale. In conclusione, possiamo riconoscere negli anni Trenta e negli interventi normativi e teorici sulla regolazione dell’economia ivi emergenti, un momento di svolta per la formazione – o la modificazione – delle carte costituzionali del secondo Novecento, chiamate adesso ad includere al proprio interno una disciplina dell’economico di natura diversa e a tenere in conto dimensioni nuove dell’universo giuridico – come, ad esempio, quella collettiva – risultanti dalla progressiva erosione della tradizionale separazione delle sfere disciplinari ma anche e soprattutto teoriche di pubblico e privato.

STATO, INDUSTRIA E CREDITO NELLA RIFLESSIONE GIURIDICA NEGLI ANNI DELLA «GRANDE DEPRESSIONE». UN’IPOTESI DI CONFRONTO TRA ITALIA E STATI UNITI D’AMERICA (1929-1939)

MALPASSI, Stefano
2020-01-01

Abstract

Attraverso la ricostruzione delle risposte giuridiche alla «grande depressione» nei diversi contesti italiano e statunitense, questo lavoro aspira a individuare l’emersione di problemi giuridici tendenzialmente globali e l’affermazione di un discorso giuridico volto in entrambi i Paesi a ripensare le dinamiche tradizionali economico-giuridiche e in particolare di relazione tra il potere statuale e la libertà economica individuale. A partire dagli anni Trenta, infatti, il regime fascista inaugurò una serie di interventi volti a ordinare l’economia italiana e permettere, oltre al superamento della depressione economica, il compiersi degli obiettivi politici del regime stesso. La creazione di peculiari enti pubblici economici incaricati di risolvere la confusione del credito e del controllo dei settori produttivi più rilevanti (IMI, IRI), l’emanazione di una legislazione sulla produzione industriale potenzialmente molto invasiva da parte dei pubblici poteri e, infine, una riforma complessiva del sistema bancario e creditizio, rappresentarono per la scienza giuridica italiana occasioni di forte ripensamento di istituti e categorie tradizionali, la cui crisi era cominciata ad emergere già in precedenza a seguito del primo conflitto mondiale. Allo stesso modo il crollo di Wall Street e la conseguente emergenza economica avevano fatto sorgere negli Stati Uniti un’identica esigenza di ripensamento dei rapporti tra pubblici poteri e iniziativa economica privata: attraverso il riferimento all’eccezionalità della stagione deflattiva in corso, si ambiva infatti ad affermare un definitivo abbandono delle teorie economiche ma anche costituzionali del laissez-faire, in favore di nuove e diverse concezioni delle relazioni e non più separazioni tra pubblico e privato. In particolare, durante gli anni del New Deal, la creazione di administrative agencies deputate a dare ordine e indirizzo sia al settore industriale e produttivo (è il caso della NRA), che a quello finanziario e creditizio (come la RFC, e la SEC), posero fortemente in discussione i tradizionali limiti e bilanciamenti della Costituzione americana, e offrirono lo stimolo per l’elaborazione di un ampio ventaglio di soluzioni teoriche tutte potenzialmente concorrenti alla trasformazione economico-costituzionale del Paese. In tal senso, a unificare non solo astrattamente le due esperienze indagate del fascismo italiano e del New Deal americano contribuì la centralità assunta nel dibattito teorico-giuridico dal corporativismo, che finì per rappresentare un peculiare vettore di unificazione delle riflessioni giuridiche ed economiche di larga parte del mondo occidentale nel corso degli anni Trenta. Il corporativismo, infatti, si dimostrò un passe-partout ideologico capace di prestarsi a molteplici declinazioni, realizzate e realizzabili, con conseguenze molto diverse tra loro ma tutte egualmente accomunate da un’identica esigenza di trovare una soluzione che, all’interno dello Stato, mettesse ordine tra gli interessi plurali emergenti dalla società: un’emersione, quella del sociale, non più semplicisticamente risolvibile attraverso i noti schemi teorici liberali e attraverso (o almeno non solo) le tradizionali dinamiche parlamentari. Il corporativismo appare così, un “laboratorio” teorico di ripensamento di categorie e strumenti giuridici che contribuì al definitivo compimento di quel passaggio al Novecento post-moderno nel tentativo di mettere in disparte l’importante e “ingombrante” passato-presente rappresentato dalla modernità liberale. In conclusione, possiamo riconoscere negli anni Trenta e negli interventi normativi e teorici sulla regolazione dell’economia ivi emergenti, un momento di svolta per la formazione – o la modificazione – delle carte costituzionali del secondo Novecento, chiamate adesso ad includere al proprio interno una disciplina dell’economico di natura diversa e a tenere in conto dimensioni nuove dell’universo giuridico – come, ad esempio, quella collettiva – risultanti dalla progressiva erosione della tradizionale separazione delle sfere disciplinari ma anche e soprattutto teoriche di pubblico e privato.
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Tipologia: Tesi di dottorato
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11393/265456
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