La ricerca oggetto della Tesi riguarda un’indagine sui fondamenti teorici e giusfilosofici della “giustizia costituzionale”, con particolare riferimento alle problematiche connesse all’individuazione del “posto” che i suoi organi sono chiamati a ricoprire negli ordinamenti giuridici contemporanei e, quindi, sulle fonti di legittimazione delle funzioni che concretamente essi svolgono. L’avvento dell’idea di una “giustizia costituzionale” stimola un’analisi critica sulle esigenze di riconcettualizzazione richieste dal passaggio dallo statualismo e dall’impronta positivistica dello Stato liberale, alle nuove costruzioni teorico-giuridiche che hanno accompagnato l’evoluzione delle democrazie costituzionali novecentesche. Qui emergono, infatti, nuovi modelli teorici legati a dinamiche di manifestazione del diritto autonome dalla mediazione esclusiva e diretta del potere politico e che si affermano in una sfera di esperienza che trascende quella giuridico-positiva. L’ambito di approfondimento del tema di ricerca si concentra sulla letteratura italiana, soprattutto del Secondo dopoguerra, ricollegata al c.d. Neocostituzionalismo. Gli Autori riconducibili a questo movimento d’idee mettono in evidenza l’impossibilità o, comunque, l’inadeguatezza di un approccio avalutativo al diritto. Con la conseguenza che quanto alla sua applicazione essi concordano sulla maggiore affidabilità del metodo della ponderazione – il “bilanciamento”, nel linguaggio della Corte costituzionale italiana – rispetto a quello della sussunzione. Allo stesso tempo è però problematizzata la necessità di individuare limiti alla discrezionalità dell’interprete, ricorrendo ad esempio all’efficacia giuridica vincolante riconosciuta ai valori positivizzati nei principi costituzionali. Costituisce, del resto, un dato acquisito come le teorizzazioni sul “custode della Costituzione” – a partire dalla querelle tra Kelsen e Schmitt – abbiano contribuito a determinare uno “scardinamento” dei fondamenti concettuali (es. supremazia, generalità e astrattezza della legge; divisione tra diritto e morale; giudice bocca della legge e non del caso concreto) e delle categorie dogmatiche (sovranità, unità giuridica dello Stato) sui quali poggiava la costruzione teorica dello Stato liberale. Forma di Stato fondata sulla stretta equiparazione tra legge/diritto/giustizia, innestata in un contesto storico-politico nel quale il prodotto della volontà parlamentare si riteneva del tutto svincolato da esigenze di verifica della sua giustizia sostanziale e/o da un vaglio di legittimità “costituzionale”. Tale impostazione concettuale è inimmaginabile nella dimensione costituzionale post-bellica, “novecentesca”. L’incorporazione nel diritto di principi latu sensu morali e l’apertura alla creatività e ricchezza dell’attività interpretativa caratterizzano il nuovo ordine giuridico, connotato da testi costituzionali infusi di una spiccata vocazione programmatica, legata a filo doppio con l’avvento storico dalle democrazie di massa e del pluralismo assiologico ad esse connesso. Si fa strada la convinzione dell’impossibilità di un approccio meramente scientifico allo studio e alla pratica del diritto, a cui si affianca l’idea della superiorità assiologia della Costituzione per il fondamentale rilievo rivestito dai valori negli attuali sistemi costituzionali. Diviene altresì crescente, nella dinamica istituzionale contemporanea, l’importanza di poteri “neutri” come lo sono, appunto, gli organi di giustizia costituzionale. La visione kelseniana di una corte “neutrale”, custode esterna del parlamentarismo, innestata in una Costituzione indifferente ai valori, agli interessi materiali, ai contenuti reali, rappresenta ormai un disegno storicamente superato e appunto bisognoso di essere riconcettualizzato. Nell’evoluzione della giustizia costituzionale, tanto nei sistemi “diffusi” quanto in quelli “accentrati”, il modello del giudice delle leggi quale “legislatore negativo” (esterno ed estraneo al ciclo nomopoietico) rappresenta una teorica dai confini eccessivamente angusti. Di fatto, le corti svolgono un ruolo diverso da quello immaginato da Kelsen contribuendo a dimostrare la nuova matrice su cui poggiano i diritti fondamentali. Essi hanno una derivazione non più soltanto “legislativa”, ma anche (o soprattutto) giurisprudenziale. I giudici costituzionali sottopongono continuamente le leggi a verifiche di vera e propria “razionalità materiale”, di ragionevolezza, valutandone l’idoneità a realizzare obiettivi di benessere sociale nel rispetto di criteri di eguaglianza, di proporzionalità e adeguatezza tra mezzi e fini e di congruenza con i principi fondamentali del sistema giuridico. Nello Stato costituzionale domina il superprincipio della ragionevolezza del diritto, presente sotto denominazioni diverse, in tutte le giurisprudenze costituzionali statali e internazionali. Tuttavia, nulla è meno predeterminato di questo principio; nulla è più dipendente di esso da presupposti concettuali antecedenti al diritto positivo. Ci troviamo in una dimensione nella quale la giurisprudenza è destinata a operare a pieno titolo quale fonte del diritto, essendo ormai impensabile ricercare nel legislatore l’espressione della Nazione, quand’anche esso rappresenti la maggioranza politica preponderante. Diviene impossibile ravvisare nella legge l’espressione dell’unità politica, rappresentando questa fonte soltanto una parte della società, rectius una delle parti di cui essa si compone. Il giudice delle leggi si misura con una realtà pluralistica, dominata dal principio di differenziazione delle aspettative di valore, e deve fare in modo che il principio di non contraddizione o di coerenza logico-formale sul quale continua a poggiare il postulato dell’unità della Costituzione non ne risulti compromesso. In questa prospettiva, la natura del suo compito diventa squisitamente “politica”; politicità da intendersi però come rispondente a logiche del tutto peculiari e che differisce profondamente, sia nel metodo che negli obiettivi, da quella del Parlamento. Se “le corti”, insomma, da “segmento” divengono “motore” del ciclo nomopoietico emerge ancor più criticamente il problema della loro legittimazione politica. Si è dunque tentato di ricostruire l’evoluzione storico/geografica dei temi connessi alla giustizia costituzionale e del dibattito filosofico che ha accompagnato l’immaginazione, la progettazione e la realizzazione dei diversi modelli nei quali si è attuato un “controllo sostanziale” della legge. Le Corti costituzionali finiscono, insomma, per “interessarsi” di politica sotto specie di diritto – e attraverso il diritto – riconducendo conflitti politici a criteri di ragionevolezza, logicità, proporzionalità e coerenza. Così operando, la loro attività interpretativa sconfina nel campo della moralità politica e mostra come diritto e morale non possono più universi separati, ma vi è tra essi un legame imprescindibile. L’obiettivo di mantenere stabilità e continuità nella vita collettiva, e quindi di ricomporre le fratture e i conflitti che in essa si generano, viene perseguito con gli strumenti della risoluzione giudiziaria delle controversie, dell’argomentazione tramite norme giuridiche sovraordinate alla legge, appunto “costituzionali”. Ma esse sebbene siano norme “positive”, presentano un contenuto di sapore necessariamente morale. Diviene, allora, evidente come il problema in questione si riverbera sul più delicato e ampio tema del rapporto tra potere politico e potere giurisdizionale, tra legis-latio e iuris-dictio.

Limitazione e legittimazione del potere nel dibattito teorico sulla giustizia costituzionale

maglio
2019-01-01

Abstract

La ricerca oggetto della Tesi riguarda un’indagine sui fondamenti teorici e giusfilosofici della “giustizia costituzionale”, con particolare riferimento alle problematiche connesse all’individuazione del “posto” che i suoi organi sono chiamati a ricoprire negli ordinamenti giuridici contemporanei e, quindi, sulle fonti di legittimazione delle funzioni che concretamente essi svolgono. L’avvento dell’idea di una “giustizia costituzionale” stimola un’analisi critica sulle esigenze di riconcettualizzazione richieste dal passaggio dallo statualismo e dall’impronta positivistica dello Stato liberale, alle nuove costruzioni teorico-giuridiche che hanno accompagnato l’evoluzione delle democrazie costituzionali novecentesche. Qui emergono, infatti, nuovi modelli teorici legati a dinamiche di manifestazione del diritto autonome dalla mediazione esclusiva e diretta del potere politico e che si affermano in una sfera di esperienza che trascende quella giuridico-positiva. L’ambito di approfondimento del tema di ricerca si concentra sulla letteratura italiana, soprattutto del Secondo dopoguerra, ricollegata al c.d. Neocostituzionalismo. Gli Autori riconducibili a questo movimento d’idee mettono in evidenza l’impossibilità o, comunque, l’inadeguatezza di un approccio avalutativo al diritto. Con la conseguenza che quanto alla sua applicazione essi concordano sulla maggiore affidabilità del metodo della ponderazione – il “bilanciamento”, nel linguaggio della Corte costituzionale italiana – rispetto a quello della sussunzione. Allo stesso tempo è però problematizzata la necessità di individuare limiti alla discrezionalità dell’interprete, ricorrendo ad esempio all’efficacia giuridica vincolante riconosciuta ai valori positivizzati nei principi costituzionali. Costituisce, del resto, un dato acquisito come le teorizzazioni sul “custode della Costituzione” – a partire dalla querelle tra Kelsen e Schmitt – abbiano contribuito a determinare uno “scardinamento” dei fondamenti concettuali (es. supremazia, generalità e astrattezza della legge; divisione tra diritto e morale; giudice bocca della legge e non del caso concreto) e delle categorie dogmatiche (sovranità, unità giuridica dello Stato) sui quali poggiava la costruzione teorica dello Stato liberale. Forma di Stato fondata sulla stretta equiparazione tra legge/diritto/giustizia, innestata in un contesto storico-politico nel quale il prodotto della volontà parlamentare si riteneva del tutto svincolato da esigenze di verifica della sua giustizia sostanziale e/o da un vaglio di legittimità “costituzionale”. Tale impostazione concettuale è inimmaginabile nella dimensione costituzionale post-bellica, “novecentesca”. L’incorporazione nel diritto di principi latu sensu morali e l’apertura alla creatività e ricchezza dell’attività interpretativa caratterizzano il nuovo ordine giuridico, connotato da testi costituzionali infusi di una spiccata vocazione programmatica, legata a filo doppio con l’avvento storico dalle democrazie di massa e del pluralismo assiologico ad esse connesso. Si fa strada la convinzione dell’impossibilità di un approccio meramente scientifico allo studio e alla pratica del diritto, a cui si affianca l’idea della superiorità assiologia della Costituzione per il fondamentale rilievo rivestito dai valori negli attuali sistemi costituzionali. Diviene altresì crescente, nella dinamica istituzionale contemporanea, l’importanza di poteri “neutri” come lo sono, appunto, gli organi di giustizia costituzionale. La visione kelseniana di una corte “neutrale”, custode esterna del parlamentarismo, innestata in una Costituzione indifferente ai valori, agli interessi materiali, ai contenuti reali, rappresenta ormai un disegno storicamente superato e appunto bisognoso di essere riconcettualizzato. Nell’evoluzione della giustizia costituzionale, tanto nei sistemi “diffusi” quanto in quelli “accentrati”, il modello del giudice delle leggi quale “legislatore negativo” (esterno ed estraneo al ciclo nomopoietico) rappresenta una teorica dai confini eccessivamente angusti. Di fatto, le corti svolgono un ruolo diverso da quello immaginato da Kelsen contribuendo a dimostrare la nuova matrice su cui poggiano i diritti fondamentali. Essi hanno una derivazione non più soltanto “legislativa”, ma anche (o soprattutto) giurisprudenziale. I giudici costituzionali sottopongono continuamente le leggi a verifiche di vera e propria “razionalità materiale”, di ragionevolezza, valutandone l’idoneità a realizzare obiettivi di benessere sociale nel rispetto di criteri di eguaglianza, di proporzionalità e adeguatezza tra mezzi e fini e di congruenza con i principi fondamentali del sistema giuridico. Nello Stato costituzionale domina il superprincipio della ragionevolezza del diritto, presente sotto denominazioni diverse, in tutte le giurisprudenze costituzionali statali e internazionali. Tuttavia, nulla è meno predeterminato di questo principio; nulla è più dipendente di esso da presupposti concettuali antecedenti al diritto positivo. Ci troviamo in una dimensione nella quale la giurisprudenza è destinata a operare a pieno titolo quale fonte del diritto, essendo ormai impensabile ricercare nel legislatore l’espressione della Nazione, quand’anche esso rappresenti la maggioranza politica preponderante. Diviene impossibile ravvisare nella legge l’espressione dell’unità politica, rappresentando questa fonte soltanto una parte della società, rectius una delle parti di cui essa si compone. Il giudice delle leggi si misura con una realtà pluralistica, dominata dal principio di differenziazione delle aspettative di valore, e deve fare in modo che il principio di non contraddizione o di coerenza logico-formale sul quale continua a poggiare il postulato dell’unità della Costituzione non ne risulti compromesso. In questa prospettiva, la natura del suo compito diventa squisitamente “politica”; politicità da intendersi però come rispondente a logiche del tutto peculiari e che differisce profondamente, sia nel metodo che negli obiettivi, da quella del Parlamento. Se “le corti”, insomma, da “segmento” divengono “motore” del ciclo nomopoietico emerge ancor più criticamente il problema della loro legittimazione politica. Si è dunque tentato di ricostruire l’evoluzione storico/geografica dei temi connessi alla giustizia costituzionale e del dibattito filosofico che ha accompagnato l’immaginazione, la progettazione e la realizzazione dei diversi modelli nei quali si è attuato un “controllo sostanziale” della legge. Le Corti costituzionali finiscono, insomma, per “interessarsi” di politica sotto specie di diritto – e attraverso il diritto – riconducendo conflitti politici a criteri di ragionevolezza, logicità, proporzionalità e coerenza. Così operando, la loro attività interpretativa sconfina nel campo della moralità politica e mostra come diritto e morale non possono più universi separati, ma vi è tra essi un legame imprescindibile. L’obiettivo di mantenere stabilità e continuità nella vita collettiva, e quindi di ricomporre le fratture e i conflitti che in essa si generano, viene perseguito con gli strumenti della risoluzione giudiziaria delle controversie, dell’argomentazione tramite norme giuridiche sovraordinate alla legge, appunto “costituzionali”. Ma esse sebbene siano norme “positive”, presentano un contenuto di sapore necessariamente morale. Diviene, allora, evidente come il problema in questione si riverbera sul più delicato e ampio tema del rapporto tra potere politico e potere giurisdizionale, tra legis-latio e iuris-dictio.
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1.Dario Maglio_MATR.58790_TESI UNICO FILE_2018_11_28.pdf

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Descrizione: tesi di dottorato
Tipologia: Tesi di dottorato
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11393/258963
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