A differenza di quanto accade per altre tipologie romanzesche, il romanzo politico italiano del Seicento non gode a tutt’oggi di una consistente bibliografia . Ciò è da ricondurre ad un duplice ordine di fattori: da una parte, tale tradizione è senz’altro meno nutrita di quanto non accada in altri Paesi europei (Francia, Germania e Inghilterra in primis); dall’altra, la necessità di difendersi da una censura che poteva prendere, e di fatto spesso prese, il volto della persecuzione da parte delle autorità religiose e politiche costrinse gli autori ad indossare una maschera di dissimulazione. Non è un caso che questa tradizione prosperi in Paesi come quelli su ricordati, nei quali era notoriamente vigoroso un dissenso religioso verso l’autorità della Chiesa romana. Ciò equivale a dire che la parte più cospicua del romanzo politico italiano di epoca barocca è da leggere in chiave polemica e sotto il velame del travestimento satirico o giocoso. Tuttavia, tale operazione di mascheramento, sicuramente maggioritaria, non è esclusiva, come testimoniano i violenti pamphlets anti-barberiniani di Ferrante Pallavicino, che gli costarono la vita. Inoltre, la pratica del mascheramento assume, nei diversi casi, forme molto differenti; anzi, alcuni degli autori considerati nel presente studio fanno riferimento alla gestione spavalda di generi letterari differenti allo stesso scopo. Ne consegue che il romanzo politico assume spesso, nel Seicento italiano, forme camaleontiche, presentandosi con fattezze tali da indurre a confonderlo con generi o sottogeneri affini. Piuttosto simili appaiono, per provenienza geografica e sociale e, soprattutto, per formazione ideologico-culturale, i profili dei principali romanzieri politici secenteschi. La maggior parte di essi, infatti, era in qualche modo legata alla Repubblica di Venezia e alla veneziana Accademia degli Incogniti, fondata da Giovan Francesco Loredan nel 1630; affiancò alla carriera letteraria una carriera più propriamente politica; si formò in ambienti legati all’ateneo patavino, dalla tradizione smaccatamente aristotelico-eterodossa, o libertini. Il presente studio ha preso le mosse da un’analisi delle diverse forme di contatto tra politica e narrazione riscontrabili nella letteratura di epoca barocca. Tale “contaminazione” poteva manifestarsi in forma diretta e concretizzarsi in specifici generi letterari, quali la trattatistica politica, la storiografia, la libellistica, il romanzo storico e pseudostorico, o dare vita a romanzi eroico-cavallereschi, che presentavano temi e personaggi tratti dalla storia coeva o dai contemporanei dibattiti politici. In altri casi, invece, la “contaminazione” avveniva in forma indiretta ed allusiva, attraverso meccanismi letterari di varia natura, che permettevano ai romanzieri di inserire più o meno specifici riferimenti alla sfera storico-politica nelle loro opere narrative. I più frequenti di tali stratagemmi erano il tradizionale topos delle carte ritrovate, il più recente motivo dello svaligio del corriere e l’espediente della chiave letteraria. Quest’ultimo permetteva di inserire, all’interno delle opere romanzesche, riferimenti cifrati alla storia e alla politica recenti o contemporanee, camuffandoli all’interno della narrazione, dando così vita a romanzi fantastici con specifici passaggi a chiave , ovvero a romanzi politici veri e propri. Per romanzo politico si intende qui una sottocategoria del genere romanzesco che presenta una identità propria, distinguendosi da generi e sottogeneri affini (come, ad esempio, il romanzo storico). Peculiarità distintive del romanzo politico sono la presenza di una qualche forma di mascheramento – che di norma si concretizza in una o più delle suddette strategie di camuffamento; la pervasività del sistema allegorico ; la presenza di un “patto” autore-lettore; e la finalità “eversiva” della scrittura. Il romanzo politico è dunque un’opera romanzesca ascrivibile, di primo acchito, al genere fantastico (erotico o eroico-cavalleresco); dietro la veste favolistica, tuttavia, si cela un messaggio “altro”, di natura politica, che l’autore ha scelto di camuffare per ragioni prudenziali. Affinché il lettore potesse penetrare oltre il significato letterale del testo e cogliere il “vero” messaggio dell’autore, doveva essere tuttavia allertato dell’esistenza del doppio fondo allegorico. Per tale ragione, di norma, il romanziere inseriva esplicite dichiarazioni in sede prefatoria ovvero delle “spie” nel corso della narrazione, invitando così il proprio pubblico a stringere con lui un “patto” interpretativo . Solo dopo aver adeguatamente definito il campo di indagine è stato possibile offrirne uno studio accurato, a partire dall’individuazione di quello che ne deve essere considerato l’archetipo: l’Argenis, romanzo scritto in latino dall’erudito franco-scozzese John Barclay, la cui princeps apparve a Parigi nel 1621. È stata quindi proposta l’analisi di due romanzi politici di area italiana, l’Eromena di Giovanni Francesco Biondi, edita a Venezia nel 1624, e L’ambasciatore invidiato di Ferrante Pallavicino, pubblicato a Venezia nel 1639; e di alcuni casi limite, la cui attribuzione alla categoria letteraria in questione risulta tutt’altro che scontata: La lucerna di Francesco Pona, edita a Verona nel 1625, l’Eudemia di Gian Vittorio Rossi, apparsa coperta da pseudonimo e senza luogo di stampa nel 1636, e La fuggitiva di Girolamo Brusoni pubblicata a Venezia nel 1639. I capitoli conclusivi della tesi, infine, sono stati dedicati allo studio di due esempi di romanzo politico italiano di epoca secentesca, Il Brancaleone di Latrobio, crittonimo di Giovan Pietro Giussani, edito a Milano nel 1610, e La maschera iatropolitica di Francesco Pona, pubblicata a Venezia nel 1627. I romanzi sono stati diffusamente analizzati da un punto di vista narratologico, tematico e formale e per entrambi è stata avanzata una proposta di de-allegorizzazione, con conseguente svelamento del messaggio politico cifrato ad essi affidato.

Politica e narrazione nel XVII secolo: il romanzo politico italiano di età barocca

Larocca, C
2019-01-01

Abstract

A differenza di quanto accade per altre tipologie romanzesche, il romanzo politico italiano del Seicento non gode a tutt’oggi di una consistente bibliografia . Ciò è da ricondurre ad un duplice ordine di fattori: da una parte, tale tradizione è senz’altro meno nutrita di quanto non accada in altri Paesi europei (Francia, Germania e Inghilterra in primis); dall’altra, la necessità di difendersi da una censura che poteva prendere, e di fatto spesso prese, il volto della persecuzione da parte delle autorità religiose e politiche costrinse gli autori ad indossare una maschera di dissimulazione. Non è un caso che questa tradizione prosperi in Paesi come quelli su ricordati, nei quali era notoriamente vigoroso un dissenso religioso verso l’autorità della Chiesa romana. Ciò equivale a dire che la parte più cospicua del romanzo politico italiano di epoca barocca è da leggere in chiave polemica e sotto il velame del travestimento satirico o giocoso. Tuttavia, tale operazione di mascheramento, sicuramente maggioritaria, non è esclusiva, come testimoniano i violenti pamphlets anti-barberiniani di Ferrante Pallavicino, che gli costarono la vita. Inoltre, la pratica del mascheramento assume, nei diversi casi, forme molto differenti; anzi, alcuni degli autori considerati nel presente studio fanno riferimento alla gestione spavalda di generi letterari differenti allo stesso scopo. Ne consegue che il romanzo politico assume spesso, nel Seicento italiano, forme camaleontiche, presentandosi con fattezze tali da indurre a confonderlo con generi o sottogeneri affini. Piuttosto simili appaiono, per provenienza geografica e sociale e, soprattutto, per formazione ideologico-culturale, i profili dei principali romanzieri politici secenteschi. La maggior parte di essi, infatti, era in qualche modo legata alla Repubblica di Venezia e alla veneziana Accademia degli Incogniti, fondata da Giovan Francesco Loredan nel 1630; affiancò alla carriera letteraria una carriera più propriamente politica; si formò in ambienti legati all’ateneo patavino, dalla tradizione smaccatamente aristotelico-eterodossa, o libertini. Il presente studio ha preso le mosse da un’analisi delle diverse forme di contatto tra politica e narrazione riscontrabili nella letteratura di epoca barocca. Tale “contaminazione” poteva manifestarsi in forma diretta e concretizzarsi in specifici generi letterari, quali la trattatistica politica, la storiografia, la libellistica, il romanzo storico e pseudostorico, o dare vita a romanzi eroico-cavallereschi, che presentavano temi e personaggi tratti dalla storia coeva o dai contemporanei dibattiti politici. In altri casi, invece, la “contaminazione” avveniva in forma indiretta ed allusiva, attraverso meccanismi letterari di varia natura, che permettevano ai romanzieri di inserire più o meno specifici riferimenti alla sfera storico-politica nelle loro opere narrative. I più frequenti di tali stratagemmi erano il tradizionale topos delle carte ritrovate, il più recente motivo dello svaligio del corriere e l’espediente della chiave letteraria. Quest’ultimo permetteva di inserire, all’interno delle opere romanzesche, riferimenti cifrati alla storia e alla politica recenti o contemporanee, camuffandoli all’interno della narrazione, dando così vita a romanzi fantastici con specifici passaggi a chiave , ovvero a romanzi politici veri e propri. Per romanzo politico si intende qui una sottocategoria del genere romanzesco che presenta una identità propria, distinguendosi da generi e sottogeneri affini (come, ad esempio, il romanzo storico). Peculiarità distintive del romanzo politico sono la presenza di una qualche forma di mascheramento – che di norma si concretizza in una o più delle suddette strategie di camuffamento; la pervasività del sistema allegorico ; la presenza di un “patto” autore-lettore; e la finalità “eversiva” della scrittura. Il romanzo politico è dunque un’opera romanzesca ascrivibile, di primo acchito, al genere fantastico (erotico o eroico-cavalleresco); dietro la veste favolistica, tuttavia, si cela un messaggio “altro”, di natura politica, che l’autore ha scelto di camuffare per ragioni prudenziali. Affinché il lettore potesse penetrare oltre il significato letterale del testo e cogliere il “vero” messaggio dell’autore, doveva essere tuttavia allertato dell’esistenza del doppio fondo allegorico. Per tale ragione, di norma, il romanziere inseriva esplicite dichiarazioni in sede prefatoria ovvero delle “spie” nel corso della narrazione, invitando così il proprio pubblico a stringere con lui un “patto” interpretativo . Solo dopo aver adeguatamente definito il campo di indagine è stato possibile offrirne uno studio accurato, a partire dall’individuazione di quello che ne deve essere considerato l’archetipo: l’Argenis, romanzo scritto in latino dall’erudito franco-scozzese John Barclay, la cui princeps apparve a Parigi nel 1621. È stata quindi proposta l’analisi di due romanzi politici di area italiana, l’Eromena di Giovanni Francesco Biondi, edita a Venezia nel 1624, e L’ambasciatore invidiato di Ferrante Pallavicino, pubblicato a Venezia nel 1639; e di alcuni casi limite, la cui attribuzione alla categoria letteraria in questione risulta tutt’altro che scontata: La lucerna di Francesco Pona, edita a Verona nel 1625, l’Eudemia di Gian Vittorio Rossi, apparsa coperta da pseudonimo e senza luogo di stampa nel 1636, e La fuggitiva di Girolamo Brusoni pubblicata a Venezia nel 1639. I capitoli conclusivi della tesi, infine, sono stati dedicati allo studio di due esempi di romanzo politico italiano di epoca secentesca, Il Brancaleone di Latrobio, crittonimo di Giovan Pietro Giussani, edito a Milano nel 1610, e La maschera iatropolitica di Francesco Pona, pubblicata a Venezia nel 1627. I romanzi sono stati diffusamente analizzati da un punto di vista narratologico, tematico e formale e per entrambi è stata avanzata una proposta di de-allegorizzazione, con conseguente svelamento del messaggio politico cifrato ad essi affidato.
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