La filosofia moderna nasce insieme all’interesse per l’“artificiale”. Descartes, nella Quinta parte del Discours de la méthode, descrivendo il corpo come una macchina perfetta, scrive che tale paragone «non sarà strano per coloro che sanno quanti automi (automates) o macchine che muovono se stesse l’industria degli uomini è capace di produrre, impiegando pochissimi elementi» . Pochi anni dopo, Pascal e Leibnitz inventeranno le prime macchine per rendere più efficiente il calcolo nella consapevolezza, che era già cartesiana, che questi strumenti non condivideranno mai con l’uomo l’uso della parola. Certo, oggi la situazione è cambiata ed è imparagonabile con quanto avveniva nei secoli XVII e XVIII. Tuttavia, non è da escludere che, dato il loro interesse per l’innovazione tecnica e tecnologica, gli stessi Descartes, Pascal e Leibnitz sarebbero interessati sia a quanto oggi sta accadendo nell’ambito dell’intelligenza artificiale, sia alle implicazioni che ciò reca con sé. Tornando a Descartes, è nota l’idea del soggetto moderno che egli inaugura, ossia l’idea di un “io” che è irriducibile a ogni dubbio e perciò si scopre come fondamento di ogni sapere. Se, infatti, di tutto posso dubitare tranne che di me che sto dubitando, affermare “je suis, j’existe” e “je pense, donc je suis” (o nella versione latina “cogito ergo sum”) equivarrà a fare del soggetto il fondamento della consapevolezza di sé e, a partire da ciò, di ogni altro sapere. Il che, tuttavia, rappresenta soltanto il primo aspetto della questione. Infatti, una volta che il cammino è stato aperto, anche la concezione della verità si destina al cambiamento, ché l’idea di una verità come certezza di cui (l’) esprit/mens sarebbe il garante prende il posto del paradigma medievale secondo cui «veritas est adaequatio intellectus ad rem» e/o «adaequatio intellectus et rei». Ora, proprio questo soggetto (al contempo fondamento di ogni conoscenza possibile e garante della verità), è stato messo in crisi nella filosofia del XX secolo e XXI secolo che ne ha criticato il suo essere legislatore universale astratto e disincarnato. Un soggetto che, come ebbe a dire Paul Ricœur coniando una celebre formula, “n’est, à vrai dire, personne”. E tale “io” o “soggetto” è “nessuno” perché, in luogo di essere individuo in carne e ossa, è funzione trascendentale di ogni conoscenza. Per uscire da questa funzionalità neutra, Martin Heidegger (e con lui molti altri filosofi) hanno sostituito al soggetto e all’ “io” il pronome “chi”, e ciò allo scopo di pensare un soggetto di cui non si parli in astratto ma in concreto. “Chi”, infatti, non è un pronome personale diretto ma, in quanto pronome relativo, interrogativo o indefinito, indica sempre “qualcuno che” compie un’azione. Questo glissement dall’astratto al concreto è stato declinato da Ricœur così: «(Riflettere sul “chi”) vuol dire rispondere alla domanda: chi ha fatto questa azione? Chi ne è l’agente, l’autore? […] Rispondere alla domanda “chi?” […] vuol dire raccontare la storia di una vita. La storia raccontata dice il chi dell’azione» . Ora, niente vieta di prolungare la lista delle azioni che Ricœur elenca aggiungendovi la domanda «chi decide?», ché anche questa domanda ci condurrebbe 1- ad abbandonare l’universalità (vuota) del soggetto 2- al fine di coglierne la concretezza 3- facendo accadere al soggetto stesso una trasformazione che, forse, è ben più radicale di quella che l’intelligenza artificiale ha provocato.

Chi decide? Intelligenza artificiale e trasformazioni del soggetto nella riflessione filosofica

C. Canullo
2020-01-01

Abstract

La filosofia moderna nasce insieme all’interesse per l’“artificiale”. Descartes, nella Quinta parte del Discours de la méthode, descrivendo il corpo come una macchina perfetta, scrive che tale paragone «non sarà strano per coloro che sanno quanti automi (automates) o macchine che muovono se stesse l’industria degli uomini è capace di produrre, impiegando pochissimi elementi» . Pochi anni dopo, Pascal e Leibnitz inventeranno le prime macchine per rendere più efficiente il calcolo nella consapevolezza, che era già cartesiana, che questi strumenti non condivideranno mai con l’uomo l’uso della parola. Certo, oggi la situazione è cambiata ed è imparagonabile con quanto avveniva nei secoli XVII e XVIII. Tuttavia, non è da escludere che, dato il loro interesse per l’innovazione tecnica e tecnologica, gli stessi Descartes, Pascal e Leibnitz sarebbero interessati sia a quanto oggi sta accadendo nell’ambito dell’intelligenza artificiale, sia alle implicazioni che ciò reca con sé. Tornando a Descartes, è nota l’idea del soggetto moderno che egli inaugura, ossia l’idea di un “io” che è irriducibile a ogni dubbio e perciò si scopre come fondamento di ogni sapere. Se, infatti, di tutto posso dubitare tranne che di me che sto dubitando, affermare “je suis, j’existe” e “je pense, donc je suis” (o nella versione latina “cogito ergo sum”) equivarrà a fare del soggetto il fondamento della consapevolezza di sé e, a partire da ciò, di ogni altro sapere. Il che, tuttavia, rappresenta soltanto il primo aspetto della questione. Infatti, una volta che il cammino è stato aperto, anche la concezione della verità si destina al cambiamento, ché l’idea di una verità come certezza di cui (l’) esprit/mens sarebbe il garante prende il posto del paradigma medievale secondo cui «veritas est adaequatio intellectus ad rem» e/o «adaequatio intellectus et rei». Ora, proprio questo soggetto (al contempo fondamento di ogni conoscenza possibile e garante della verità), è stato messo in crisi nella filosofia del XX secolo e XXI secolo che ne ha criticato il suo essere legislatore universale astratto e disincarnato. Un soggetto che, come ebbe a dire Paul Ricœur coniando una celebre formula, “n’est, à vrai dire, personne”. E tale “io” o “soggetto” è “nessuno” perché, in luogo di essere individuo in carne e ossa, è funzione trascendentale di ogni conoscenza. Per uscire da questa funzionalità neutra, Martin Heidegger (e con lui molti altri filosofi) hanno sostituito al soggetto e all’ “io” il pronome “chi”, e ciò allo scopo di pensare un soggetto di cui non si parli in astratto ma in concreto. “Chi”, infatti, non è un pronome personale diretto ma, in quanto pronome relativo, interrogativo o indefinito, indica sempre “qualcuno che” compie un’azione. Questo glissement dall’astratto al concreto è stato declinato da Ricœur così: «(Riflettere sul “chi”) vuol dire rispondere alla domanda: chi ha fatto questa azione? Chi ne è l’agente, l’autore? […] Rispondere alla domanda “chi?” […] vuol dire raccontare la storia di una vita. La storia raccontata dice il chi dell’azione» . Ora, niente vieta di prolungare la lista delle azioni che Ricœur elenca aggiungendovi la domanda «chi decide?», ché anche questa domanda ci condurrebbe 1- ad abbandonare l’universalità (vuota) del soggetto 2- al fine di coglierne la concretezza 3- facendo accadere al soggetto stesso una trasformazione che, forse, è ben più radicale di quella che l’intelligenza artificiale ha provocato.
2020
9788813372774
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11393/258155
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