La prima e più evidente difficoltà che si pone dinnanzi a chiunque intenda condurre una ricerca sul tema "Leibniz e la musica" è data dal fatto che il filosofo tedesco non ha mai scritto un'opera specificamente dedicata all'argomento. Nonostante ciò non si può negare che, per quanto celato, il tema della musica si presenti nel Corpus con una certa continuità, attraversandolo come una sorta di entità invisibile. Dare una forma concreta a questa entità, mettendo in luce l'influenza che l'hannoverese ha esercitato sullo sviluppo del pensiero musicale europeo, costituisce lo scopo principale del presente lavoro. Esso è suddiviso in due parti, nella prima delle quali vengono presi in esame quei testi in cui Leibniz si sofferma maggiormente nell'analizzare tematiche di tipo musicale. Ho individuato e isolato tre luoghi specifici: la Dissertatio de Arte Combinatoria (1666), il lungo e complesso epistolario con il matematico Conrad Henfling (1705-1711) e, infine, un altro scambio di lettere, meno breve ma non meno importante dal punto di vista dei contenuti: quello con Christian Goldbach (1711-1713). A ciascuno di essi è dedicato un capitolo. Se li si considera nel loro dispiegarsi diacronico, questi testi palesano un vero e proprio percorso di maturazione del pensiero leibniziano, che da una visione meramente matematizzante dell'arte del comporre giunge, nel corso degli anni, a posizioni completamente differenti. Per mostrare in maniera chiara questo percorso, nel suo evolversi dagli anni della giovinezza sino a quelli della maturità, si è deciso di presentare il materiale in ordine rigorosamente cronologico. Il primo capitolo concerne la teoria musicale contenuta all'interno della Dissertatio de Arte Combinatoria, in cui è presente una sezione dedicata allo sviluppo di un sistema di calcolo atto a fornire il numero di combinazioni possibili tra le note del pentagramma. In questo contesto i suoni sono considerati alla stregua di puri e semplici numeri che, se combinati in maniera corretta, daranno vita a un'opera formalmente impeccabile, a prescindere dal reale valore estetico. Centrale in queste riflessioni l'importanza del pensiero di Athanasius Kircher, che trova riscontro nel breve scambio di lettere avvenuto tra i due nel corso del 1670. In seguito al soggiorno parigino '72-'75, tuttavia, Leibniz muta radicalmente il proprio punto di vista sull'argomento: ispirato in particolare dai lavori di Christiaan Huygens e Joseph Sauveur, Leibniz abbandona completamente la combinatoria per dedicarsi allo studio della teoria musicale propriamente detta. Espressione paradigmatica di questo nuovo corso è l'epistolario con Conrad Henfling (analizzato nel secondo capitolo del mio lavoro), in cui il filosofo si cimenta in elaborate analisi matematiche di problemi squisitamente tecnici, spingendosi in alcuni casi a proporre soluzioni di personale ideazione, quali ad esempio una peculiare suddivisione dell'ottava in 60 parti, e una nuova, interessante classificazione degli intervalli della scala. I risultati sin qui raggiunti non costituiscono però il punto di arrivo del pensiero musicale leibniziano che, nel giro di pochi anni, subisce un'ulteriore, radicale modifica. Si fa strada in lui l'idea che all'interno del fenomeno musicale intervengano fattori non suscettibili di una spiegazione more geometrico. Il carteggio con Goldbach, analizzato nel terzo e ultimo capitolo della prima parte, è il testo in cui si estrinseca questo nuovo cambio di rotta. Qui la teoria musicale scompare del tutto, lasciando il passo a un modello di pensiero che si sviluppa lungo due vie parallele: da una parte Leibniz si concentra sul suono e sulle sue proprietà, indagando il fenomeno attraverso gli strumenti forniti dalle più recenti innovazioni in campo fisico-acustico; dall'altra, egli si interroga sul problema della fruizione, sulla risposta che l'apparato recettivo e psichico dell'essere umano produce quando si trova di fronte alla percezione di un suono armonico, formandosi nell'animo una sensazione di piacere o di dispiacere, generando così una vera e propria esperienza estetica. Ciò che si evidenzia maggiormente in questa prima parte del mio lavoro è il completo ribaltamento di prospettiva del pensiero musicale leibniziano: se nella Dissertatio, così come nell'epistolario con Henfling, il suono dipende dal numero, nelle lettere a Goldbach è il numero a sottostare alle leggi del suono. Queste acquisizioni teoriche sconfessano, o quanto meno ridimensionano decisamente, la gran parte della letteratura critica sull'argomento, che da sempre, a partire dalle opere del più importante esegeta dei testi musicali leibniziani del Novecento, Rudolf Haase, ha visto in Leibniz uno dei massimi esponenti del pitagorismo armonico seicentesco. Più che rifarsi alla sua epoca, però, il filosofo sembra guardare oltre, anticipando temi e concetti che si espliciteranno completamente solo nel pieno Settecento. Per tale ragione, la seconda parte del mio lavoro rappresenta un tentativo di calare la teoria leibniziana nella storia, tanto nel suo tempo, quanto nelle epoche successive. Operando un confronto diretto con alcuni tra i più importanti testi dell'epoca - il Compendium Musicae di Descartes (1618), l'Harmonices Mundi di Keplero (1619) e l'Harmonie Universelle di Mersenne (1636) - si è potuto mettere in luce come Leibniz, a differenza dei principali autori del suo secolo di appartenenza, riesca a costruire un discorso sulla musica privo di qualsiasi elemento di natura extramusicale. Se in autori come Descartes, Keplero o Mersenne il sistema delle note e delle scale deve sempre obbedire a una qualche autorità superiore - sia essa la ragione computazionale, il moto degli astri nel cosmo o il dogma cristiano - nel pensiero del filosofo tedesco, viceversa, l'arte dei suoni acquisisce, forse per la prima volta nel pensiero occidentale, una sua propria dignità ed autonomia, elevandosi a forma d'espressione assoluta, ed emancipandosi dallo svilente rango di ancella che per secoli le era stato accordato. In Leibniz riecheggiano, con qualche decennio d'anticipo, gli appassionati pamphlets sul valore della musica strumentale scritti da J.P. Rameau nel corso della Querelle des bouffons contro gli enciclopedisti, così come si trovano in nuce gli elementi cardine sui quali Eulero elaborerà il suo rivoluzionario sistema teorico, destinato a segnare indelebilmente il corso del pensiero musicale occidentale. Allo stesso modo, è possibile trovare significative tracce delle idee del filosofo negli scritti musicali di Diderot e, infine, nel complesso edificio metafisico elaborato da F.W.J. Schelling a inizio Ottocento. Se i legami tra il pensiero musicale di Leibniz e le teorie sorte nei decenni immediatamente successivi alla sua morte sono molti ed evidenti, è altrettanto evidente come questi legami, man mano che ci avviciniamo alla contemporaneità, si facciano sempre più labili e difficili da individuare. A conclusione dell'intero lavoro, ho inserito qualche breve considerazione proprio su questo argomento, confrontandomi in particolare con la più comune e diffusa linea di ricerca che la critica abbia offerto dal secondo dopoguerra sino ad oggi. Mi riferisco a quel filone che fa capo al noto studioso francese Y. Belaval, che postula un supposto legame tra le idee musicali leibniziane e alcune correnti avanguardistiche contemporanee, in particolare la computer music, la musica stocastica e il serialismo di derivazione weberniana. Tuttavia, l'esito di questo confronto non dà, a mio avviso, buoni frutti: la visione estetica che accomuna queste esperienze novecentesche, infatti, è incentrata sull'idea neopitagorica del numero, e delle sue combinazioni, quali unici e soli elementi a contare nella pratica musicale. In base all'analisi condotta nel corso del presente lavoro non è però possibile ascrivere a Leibniz una posizione di questo tipo: al massimo, ci si potrebbe rifare al suo pensiero giovanile, quello della Dissertatio, ma non alla sua formulazione più completa e matura che, come si è già detto, abbandona completamente l'ideale del calcolemus per concentrarsi su una riflessione circa la natura del suono e i limiti della sensibilità umana.

L'estetica musicale di G.W. Leibniz

GALLIERA, Stefano
2014-01-01

Abstract

La prima e più evidente difficoltà che si pone dinnanzi a chiunque intenda condurre una ricerca sul tema "Leibniz e la musica" è data dal fatto che il filosofo tedesco non ha mai scritto un'opera specificamente dedicata all'argomento. Nonostante ciò non si può negare che, per quanto celato, il tema della musica si presenti nel Corpus con una certa continuità, attraversandolo come una sorta di entità invisibile. Dare una forma concreta a questa entità, mettendo in luce l'influenza che l'hannoverese ha esercitato sullo sviluppo del pensiero musicale europeo, costituisce lo scopo principale del presente lavoro. Esso è suddiviso in due parti, nella prima delle quali vengono presi in esame quei testi in cui Leibniz si sofferma maggiormente nell'analizzare tematiche di tipo musicale. Ho individuato e isolato tre luoghi specifici: la Dissertatio de Arte Combinatoria (1666), il lungo e complesso epistolario con il matematico Conrad Henfling (1705-1711) e, infine, un altro scambio di lettere, meno breve ma non meno importante dal punto di vista dei contenuti: quello con Christian Goldbach (1711-1713). A ciascuno di essi è dedicato un capitolo. Se li si considera nel loro dispiegarsi diacronico, questi testi palesano un vero e proprio percorso di maturazione del pensiero leibniziano, che da una visione meramente matematizzante dell'arte del comporre giunge, nel corso degli anni, a posizioni completamente differenti. Per mostrare in maniera chiara questo percorso, nel suo evolversi dagli anni della giovinezza sino a quelli della maturità, si è deciso di presentare il materiale in ordine rigorosamente cronologico. Il primo capitolo concerne la teoria musicale contenuta all'interno della Dissertatio de Arte Combinatoria, in cui è presente una sezione dedicata allo sviluppo di un sistema di calcolo atto a fornire il numero di combinazioni possibili tra le note del pentagramma. In questo contesto i suoni sono considerati alla stregua di puri e semplici numeri che, se combinati in maniera corretta, daranno vita a un'opera formalmente impeccabile, a prescindere dal reale valore estetico. Centrale in queste riflessioni l'importanza del pensiero di Athanasius Kircher, che trova riscontro nel breve scambio di lettere avvenuto tra i due nel corso del 1670. In seguito al soggiorno parigino '72-'75, tuttavia, Leibniz muta radicalmente il proprio punto di vista sull'argomento: ispirato in particolare dai lavori di Christiaan Huygens e Joseph Sauveur, Leibniz abbandona completamente la combinatoria per dedicarsi allo studio della teoria musicale propriamente detta. Espressione paradigmatica di questo nuovo corso è l'epistolario con Conrad Henfling (analizzato nel secondo capitolo del mio lavoro), in cui il filosofo si cimenta in elaborate analisi matematiche di problemi squisitamente tecnici, spingendosi in alcuni casi a proporre soluzioni di personale ideazione, quali ad esempio una peculiare suddivisione dell'ottava in 60 parti, e una nuova, interessante classificazione degli intervalli della scala. I risultati sin qui raggiunti non costituiscono però il punto di arrivo del pensiero musicale leibniziano che, nel giro di pochi anni, subisce un'ulteriore, radicale modifica. Si fa strada in lui l'idea che all'interno del fenomeno musicale intervengano fattori non suscettibili di una spiegazione more geometrico. Il carteggio con Goldbach, analizzato nel terzo e ultimo capitolo della prima parte, è il testo in cui si estrinseca questo nuovo cambio di rotta. Qui la teoria musicale scompare del tutto, lasciando il passo a un modello di pensiero che si sviluppa lungo due vie parallele: da una parte Leibniz si concentra sul suono e sulle sue proprietà, indagando il fenomeno attraverso gli strumenti forniti dalle più recenti innovazioni in campo fisico-acustico; dall'altra, egli si interroga sul problema della fruizione, sulla risposta che l'apparato recettivo e psichico dell'essere umano produce quando si trova di fronte alla percezione di un suono armonico, formandosi nell'animo una sensazione di piacere o di dispiacere, generando così una vera e propria esperienza estetica. Ciò che si evidenzia maggiormente in questa prima parte del mio lavoro è il completo ribaltamento di prospettiva del pensiero musicale leibniziano: se nella Dissertatio, così come nell'epistolario con Henfling, il suono dipende dal numero, nelle lettere a Goldbach è il numero a sottostare alle leggi del suono. Queste acquisizioni teoriche sconfessano, o quanto meno ridimensionano decisamente, la gran parte della letteratura critica sull'argomento, che da sempre, a partire dalle opere del più importante esegeta dei testi musicali leibniziani del Novecento, Rudolf Haase, ha visto in Leibniz uno dei massimi esponenti del pitagorismo armonico seicentesco. Più che rifarsi alla sua epoca, però, il filosofo sembra guardare oltre, anticipando temi e concetti che si espliciteranno completamente solo nel pieno Settecento. Per tale ragione, la seconda parte del mio lavoro rappresenta un tentativo di calare la teoria leibniziana nella storia, tanto nel suo tempo, quanto nelle epoche successive. Operando un confronto diretto con alcuni tra i più importanti testi dell'epoca - il Compendium Musicae di Descartes (1618), l'Harmonices Mundi di Keplero (1619) e l'Harmonie Universelle di Mersenne (1636) - si è potuto mettere in luce come Leibniz, a differenza dei principali autori del suo secolo di appartenenza, riesca a costruire un discorso sulla musica privo di qualsiasi elemento di natura extramusicale. Se in autori come Descartes, Keplero o Mersenne il sistema delle note e delle scale deve sempre obbedire a una qualche autorità superiore - sia essa la ragione computazionale, il moto degli astri nel cosmo o il dogma cristiano - nel pensiero del filosofo tedesco, viceversa, l'arte dei suoni acquisisce, forse per la prima volta nel pensiero occidentale, una sua propria dignità ed autonomia, elevandosi a forma d'espressione assoluta, ed emancipandosi dallo svilente rango di ancella che per secoli le era stato accordato. In Leibniz riecheggiano, con qualche decennio d'anticipo, gli appassionati pamphlets sul valore della musica strumentale scritti da J.P. Rameau nel corso della Querelle des bouffons contro gli enciclopedisti, così come si trovano in nuce gli elementi cardine sui quali Eulero elaborerà il suo rivoluzionario sistema teorico, destinato a segnare indelebilmente il corso del pensiero musicale occidentale. Allo stesso modo, è possibile trovare significative tracce delle idee del filosofo negli scritti musicali di Diderot e, infine, nel complesso edificio metafisico elaborato da F.W.J. Schelling a inizio Ottocento. Se i legami tra il pensiero musicale di Leibniz e le teorie sorte nei decenni immediatamente successivi alla sua morte sono molti ed evidenti, è altrettanto evidente come questi legami, man mano che ci avviciniamo alla contemporaneità, si facciano sempre più labili e difficili da individuare. A conclusione dell'intero lavoro, ho inserito qualche breve considerazione proprio su questo argomento, confrontandomi in particolare con la più comune e diffusa linea di ricerca che la critica abbia offerto dal secondo dopoguerra sino ad oggi. Mi riferisco a quel filone che fa capo al noto studioso francese Y. Belaval, che postula un supposto legame tra le idee musicali leibniziane e alcune correnti avanguardistiche contemporanee, in particolare la computer music, la musica stocastica e il serialismo di derivazione weberniana. Tuttavia, l'esito di questo confronto non dà, a mio avviso, buoni frutti: la visione estetica che accomuna queste esperienze novecentesche, infatti, è incentrata sull'idea neopitagorica del numero, e delle sue combinazioni, quali unici e soli elementi a contare nella pratica musicale. In base all'analisi condotta nel corso del presente lavoro non è però possibile ascrivere a Leibniz una posizione di questo tipo: al massimo, ci si potrebbe rifare al suo pensiero giovanile, quello della Dissertatio, ma non alla sua formulazione più completa e matura che, come si è già detto, abbandona completamente l'ideale del calcolemus per concentrarsi su una riflessione circa la natura del suono e i limiti della sensibilità umana.
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