Il presente lavoro si propone di studiare la storia dell’applicazione del codice napoleonico nel regno di Napoli durante il decennio francese, attraverso uno spoglio sistematico dei fondi giudiziari depositati presso gli archivi di Stato di Napoli, Trani, Lecce e Lucera. Siffatto studio è stato condotto tramite l’analisi dei processi di divorzio che sono stati celebrati nel regno durante i sei anni di vigenza del code civil. La legge sul divorzio introdotta da Napoleone è una vera e propria scheggia dello specchio, il tramite attraverso cui far emergere l’universo mentale del legislatore, dei magistrati, dei docenti universitari e dei componenti la società civile (in particolare, gli esponenti del clero e gli intellettuali). È nota la volontà di Napoleone di francesizzare i territori satellite attraverso l’assimilazione legislativa: tale processo è, tuttavia, ostacolato da alcuni fattori che favoriscono, invece, una continuità con il passato. Alludiamo, in primis, alla presenza di Gioacchino Murat; questo sovrano, attento all’alterità della società partenopea, e preoccupato di rendere meno traumatica la francisation dell’ordinamento, si circonda di personalità autoctone, che non manca di collocare ai vertici dello Stato. Il governo murattiano appare, dunque, connotato da tratti di forte napoletanità. La retorica della continuità compare costante negli scritti dei giuristi del tempo: essa è certamente diretta ad ammorbidire l’impatto generato dal nuovo codice civile ma, a ben vedere, è dovuta anche a una caratterististica fisiologica legata al background di tali uomini di legge. Essi, educati alla cultura vichiana e permeati di una concezione storicistica degli ordinamenti, sono naturalmente portati a valorizzare le proprie tradizioni locali, nonché a riscoprire le radici antiche delle nuove leggi. Di conseguenza essi, pur rendendosi sinceramente conto che le innovazioni legislative francesi costituiscono uno strumento di incivilmento e di progresso, tendono a riscoprire le radici romanistiche del nuovo diritto, che appare ai loro occhi come il condensato dell’esperienza romanistica e dello ius proprium. Dietro l’elogio del codice si cela, in realtà, la volontà di mettere in luce che esso, lungi dall’essere straniero, è deposito di una scientia iuris che ha il carattere dell’universalità. È vero che la retorica della continuità si manifesta in tutti i territori dominati dai francesi, soprattutto grazie al celebre discorso di Bigot del 1807, ma è altrettanto vero che nel regno di Napoli tale retorica appare (grazie gli elementi cui abbiamo fatto cenno) assai meno artificiosa rispetto a quella messa in atto altrove. Oltre che in dottrina, tale atteggiamento emerge nella prassi giudiziaria; premettiamo che nel regno si registra la presenza di magistrati già operanti sotto la dinastia borbonica: vecchi giudici che devono applicare il nuovo diritto. La circostanza per cui essi siano portati ad applicare il codice richiamandone le radici romanistiche appare quasi scontata. Per i giuristi pratici vale ancora, però, un’importante precisazione: i magistrati sono calati nel “dramma del processo, che è il dramma dell’attuazione del diritto”. La consapevolezza della natura controversiale della legge, determinata anche dall’art. 4 del Titolo preliminare, che obbliga i giudici a decidere sempre e comunque, li conduce a ricorrere oltre che al codice, anche alle fonti della tradizione romanistica, intesa come ratio scripta sottesa alla normativa codificata. Il richiamo alla tradizione romanistica presente in questi giuristi non va letto come un fenomeno di resistenza al codice: più che altro, essi hanno continuato a ragionare secondo gli schemi mentali cui erano stati fino a quel momento educati, ma non disconoscono certo il valore del code civil come unica fonte di diritto vigente nel regno. La legge sul divorzio è stata pure analizzata sotto il profilo dell’insegnamento univeristario, al fine di far emergere alcuni tratti fondamentali della scienza giuridica partenopea del decennio. Come in altre zone della Penisola, anche a Napoli, alcuni docenti di diritto si dedicano alla stesura di commentari al nuovo codice civile, utili anche al fine di poter fornire un supporto didattico alle lezioni. Tali commentari napoletani, lungi dall’essere copia dei commenti francesi, assumono un valore assai importante: al loro interno i Professori compiono un tentativo di adattamento delle leggi francesi alla realtà napoletana. Ci riferiamo, in particolare, al Commento redatto da Loreto Apruzzese, Professore incaricato del corso di Code Napoléon presso l’Università di Napoli il quale, nel suo commentario, reinterpreta il modello napoleonico, conferendogli dei profili talmente nuovi ed originali che non è sbagliato affermare che la sua opera è idonea a funzionare solo all’interno dei confini partenopei. Attraverso l’interpretazione giuridica, Apruzzese compie un autentico ridimensionamento dell’elemento di rottura che il codice ha apportato nel regno, per mezzo di istituti come il divorzio e il matrimonio civile, moderandoli agli occhi dei futuri giuristi e dell’opinione pubblica. In seconda battuta, il dibattito generato dall’introduzione della legge sul divorzio ha consentito di analizzare alcuni aspetti della società civile, nella duplice angolazione del clero e degli intellettuali. La legge che costituisce il prodotto più evidente della laicizzazione voluta da Napoleone genera un acceso dibattito che coinvolge personaggi di grande rilievo, come Vincenzo Cuoco e Francesco De Attellis. Gli esponenti del clero non si sottraggono a questa diatriba e, differentemente da quanto si sia portati a pensare, non si schierano compatti contro la legge sul divorzio. L’appartenenza di alcuni di essi alla corrente del giansenismo li ha resi inclini non solo ad accettare istituti come il matrimonio civile e il divorzio, ma addirittura a favorirli e a promuoverli. Basti qui citare i casi del vescovo Bernardo della Torre e del sacerdote Antonio Casazza. Quest’ultimo, in particolare, scrive un pamphlet nel quale compie un tentativo di legittimare lo scioglimento del vincolo coniugale oltre che sotto un profilo giuridico, anche da un punto di vista teologico. L’ultima parte del lavoro analizza gli esiti giurisprudenziali dell’applicazione del titolo VI del codice da parte dei giudici dei tribunali di Napoli, Trani, Lecce e Lucera. Le carte processuali vengono analizzate individuando alcuni nuclei tematici comuni alle varie sentenze compulsate: la questione dell’irretroattività della legge sul divorzio, i divorzi per mutuo consenso camuffati da divorzi per causa determinata, l’impossibilità assoluta di ottenere una pronuncia di divorzio per consenso comune dei coniugi, il ricorso a fonti del diritto extra - codicistiche. In modo particolare, quanto a tale ultimo aspetto che è apparso anche il più problematico, è stato accertato in alcuni casi l’uso del diritto giustinianeo e della scienza canonistica. Con riguardo specifico all’uso del diritto romano, si sono accertate due tendenze: in un caso esso è utilizzato come rafforzativo rispetto a una norma espressa del codice, che viene dunque posta in correlazione con il suo illustre precedente invece, in un altro caso, esso è utilizzato come ratio scripta rispetto al codice stesso, in una precisa funzione ermeneutica e chiarificatrice.

La scheggia dello specchio. Cultura giuridica e prassi nel regno di Napoli (1808-15)

MASTROLIA, PAola
2014-01-01

Abstract

Il presente lavoro si propone di studiare la storia dell’applicazione del codice napoleonico nel regno di Napoli durante il decennio francese, attraverso uno spoglio sistematico dei fondi giudiziari depositati presso gli archivi di Stato di Napoli, Trani, Lecce e Lucera. Siffatto studio è stato condotto tramite l’analisi dei processi di divorzio che sono stati celebrati nel regno durante i sei anni di vigenza del code civil. La legge sul divorzio introdotta da Napoleone è una vera e propria scheggia dello specchio, il tramite attraverso cui far emergere l’universo mentale del legislatore, dei magistrati, dei docenti universitari e dei componenti la società civile (in particolare, gli esponenti del clero e gli intellettuali). È nota la volontà di Napoleone di francesizzare i territori satellite attraverso l’assimilazione legislativa: tale processo è, tuttavia, ostacolato da alcuni fattori che favoriscono, invece, una continuità con il passato. Alludiamo, in primis, alla presenza di Gioacchino Murat; questo sovrano, attento all’alterità della società partenopea, e preoccupato di rendere meno traumatica la francisation dell’ordinamento, si circonda di personalità autoctone, che non manca di collocare ai vertici dello Stato. Il governo murattiano appare, dunque, connotato da tratti di forte napoletanità. La retorica della continuità compare costante negli scritti dei giuristi del tempo: essa è certamente diretta ad ammorbidire l’impatto generato dal nuovo codice civile ma, a ben vedere, è dovuta anche a una caratterististica fisiologica legata al background di tali uomini di legge. Essi, educati alla cultura vichiana e permeati di una concezione storicistica degli ordinamenti, sono naturalmente portati a valorizzare le proprie tradizioni locali, nonché a riscoprire le radici antiche delle nuove leggi. Di conseguenza essi, pur rendendosi sinceramente conto che le innovazioni legislative francesi costituiscono uno strumento di incivilmento e di progresso, tendono a riscoprire le radici romanistiche del nuovo diritto, che appare ai loro occhi come il condensato dell’esperienza romanistica e dello ius proprium. Dietro l’elogio del codice si cela, in realtà, la volontà di mettere in luce che esso, lungi dall’essere straniero, è deposito di una scientia iuris che ha il carattere dell’universalità. È vero che la retorica della continuità si manifesta in tutti i territori dominati dai francesi, soprattutto grazie al celebre discorso di Bigot del 1807, ma è altrettanto vero che nel regno di Napoli tale retorica appare (grazie gli elementi cui abbiamo fatto cenno) assai meno artificiosa rispetto a quella messa in atto altrove. Oltre che in dottrina, tale atteggiamento emerge nella prassi giudiziaria; premettiamo che nel regno si registra la presenza di magistrati già operanti sotto la dinastia borbonica: vecchi giudici che devono applicare il nuovo diritto. La circostanza per cui essi siano portati ad applicare il codice richiamandone le radici romanistiche appare quasi scontata. Per i giuristi pratici vale ancora, però, un’importante precisazione: i magistrati sono calati nel “dramma del processo, che è il dramma dell’attuazione del diritto”. La consapevolezza della natura controversiale della legge, determinata anche dall’art. 4 del Titolo preliminare, che obbliga i giudici a decidere sempre e comunque, li conduce a ricorrere oltre che al codice, anche alle fonti della tradizione romanistica, intesa come ratio scripta sottesa alla normativa codificata. Il richiamo alla tradizione romanistica presente in questi giuristi non va letto come un fenomeno di resistenza al codice: più che altro, essi hanno continuato a ragionare secondo gli schemi mentali cui erano stati fino a quel momento educati, ma non disconoscono certo il valore del code civil come unica fonte di diritto vigente nel regno. La legge sul divorzio è stata pure analizzata sotto il profilo dell’insegnamento univeristario, al fine di far emergere alcuni tratti fondamentali della scienza giuridica partenopea del decennio. Come in altre zone della Penisola, anche a Napoli, alcuni docenti di diritto si dedicano alla stesura di commentari al nuovo codice civile, utili anche al fine di poter fornire un supporto didattico alle lezioni. Tali commentari napoletani, lungi dall’essere copia dei commenti francesi, assumono un valore assai importante: al loro interno i Professori compiono un tentativo di adattamento delle leggi francesi alla realtà napoletana. Ci riferiamo, in particolare, al Commento redatto da Loreto Apruzzese, Professore incaricato del corso di Code Napoléon presso l’Università di Napoli il quale, nel suo commentario, reinterpreta il modello napoleonico, conferendogli dei profili talmente nuovi ed originali che non è sbagliato affermare che la sua opera è idonea a funzionare solo all’interno dei confini partenopei. Attraverso l’interpretazione giuridica, Apruzzese compie un autentico ridimensionamento dell’elemento di rottura che il codice ha apportato nel regno, per mezzo di istituti come il divorzio e il matrimonio civile, moderandoli agli occhi dei futuri giuristi e dell’opinione pubblica. In seconda battuta, il dibattito generato dall’introduzione della legge sul divorzio ha consentito di analizzare alcuni aspetti della società civile, nella duplice angolazione del clero e degli intellettuali. La legge che costituisce il prodotto più evidente della laicizzazione voluta da Napoleone genera un acceso dibattito che coinvolge personaggi di grande rilievo, come Vincenzo Cuoco e Francesco De Attellis. Gli esponenti del clero non si sottraggono a questa diatriba e, differentemente da quanto si sia portati a pensare, non si schierano compatti contro la legge sul divorzio. L’appartenenza di alcuni di essi alla corrente del giansenismo li ha resi inclini non solo ad accettare istituti come il matrimonio civile e il divorzio, ma addirittura a favorirli e a promuoverli. Basti qui citare i casi del vescovo Bernardo della Torre e del sacerdote Antonio Casazza. Quest’ultimo, in particolare, scrive un pamphlet nel quale compie un tentativo di legittimare lo scioglimento del vincolo coniugale oltre che sotto un profilo giuridico, anche da un punto di vista teologico. L’ultima parte del lavoro analizza gli esiti giurisprudenziali dell’applicazione del titolo VI del codice da parte dei giudici dei tribunali di Napoli, Trani, Lecce e Lucera. Le carte processuali vengono analizzate individuando alcuni nuclei tematici comuni alle varie sentenze compulsate: la questione dell’irretroattività della legge sul divorzio, i divorzi per mutuo consenso camuffati da divorzi per causa determinata, l’impossibilità assoluta di ottenere una pronuncia di divorzio per consenso comune dei coniugi, il ricorso a fonti del diritto extra - codicistiche. In modo particolare, quanto a tale ultimo aspetto che è apparso anche il più problematico, è stato accertato in alcuni casi l’uso del diritto giustinianeo e della scienza canonistica. Con riguardo specifico all’uso del diritto romano, si sono accertate due tendenze: in un caso esso è utilizzato come rafforzativo rispetto a una norma espressa del codice, che viene dunque posta in correlazione con il suo illustre precedente invece, in un altro caso, esso è utilizzato come ratio scripta rispetto al codice stesso, in una precisa funzione ermeneutica e chiarificatrice.
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LA SCHEGGIA DELLO SPECCHIO. CULTURA GIURIDICA E PRASSI NEL REGNO DI NAPOLI (1809-15).pdf

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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11393/191840
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