La conservazione e la valorizzazione del cultural heritage non potranno i risultati attesi di assoluto rilievo al tempo stesso sociale ed economico in mancanza di cultura aziendale: il problema è macro, ma le soluzioni non potranno essere che di carattere micro. L’ostacolo da superare è la mancanza di sintonia con il sistema dei professional e (per conseguenza) con i sovrasistemi sociale e politico, dovuta al grave equivoco circa la nozione di “valore” (e di marketing) riferita al patrimonio culturale storico. Fondamentale errore di economisti e aziendalisti è di cercare l’intesa nella direzione più errata. Basti considerare: la letteratura anglosassone sul marketing culturale contrapposto al marketing commerciale e inteso in modo nient’affatto relazionale (da Kotler a Colbert, passando per Diggles, Mokwa, Melillo, Hirschman); la tesi di Throsby, secondo il quale «in campo economico il valore riguarda l’utilità, il prezzo e l’importanza che gli individui o i mercati attribuiscono alle merci” mentre nel settore culturale si riferirebbe a «particolari caratteristiche dei fenomeni culturali, esprimibili sia in termini specifici, come il valore del tono di una nota musicale o il valore di un colore in un quadro, che in termini generali, per indicare il merito o l’importanza di un’opera, un oggetto, un’esperienza o di un’altra forma di espressione culturale». Questi assunti determinano: una percezione del valore del capitale culturale commisurata a troppo modeste utilità collettive e private; gestioni inefficaci e inefficienti, perché autoreferenziali; progressiva riduzione del valore del capitale culturale con il rischio di comprometterne la stessa sopravvivenza (perché diminuisce la preferenza di comunità). Tali archetipi attengono a una nozione di “valore” del capitale culturale: limitata al “valore in sé” (embedded) anziché aperta al molto più ampio (e molto segmentabile) valore d’uso (percepito); perciò scollegata dal momento dello scambio e del consumo; limitata a benefici immateriali e, per essi, quasi soltanto alle componenti estetiche, simboliche, emozionali; limitata alla produzione di beni di consumo e non anche di produzione; limitata ad un solo (ridotto) target di domanda; viziata dalla confusione fra stock e prodotto. L’innovazione necessaria deve far leva sull’aggiornamento avviato negli anni ’60-’70 degli statuti disciplinari delle scienze umane, a cominciare dall’archeologia, dalla storia dell’arte, dalla storiografia tout-court. Conseguentemente si dovrà (e si potrà): pervenire ad una univoca nozione di “bene culturale” in ampia accezione antropologica, sistemica, territoriale; evitare la confusione fra arte e cultura; pervenire ad una nozione di valore quale utilità e riconoscerne puntualmente la vastissima gamma; convenire che il valore in ogni parte della sua gamma (materiale e immateriale che sia) è misurabile anche in termini monetari; pervenire ad una nozione di marketing culturale di specie relazionale e non più contrapposta al marketing commerciale; definire esattamente la nozione di museo-azienda. In questa direzione si potrà giungere a definire precisamente e distintamente una branca di studi del Cultural Heritage Economics, prendendo atto che i processi di produzione, di scambio e di consumo concernenti questo specifico ambito hanno troppo poco in comune con le performing arts, le industrie culturali e il molto altro fin qui incoerentemente ammucchiato sotto la generica e astratta insegna della “economia della cultura”.

Cultural Heritage Economics?

MONTELLA, Massimo
2011-01-01

Abstract

La conservazione e la valorizzazione del cultural heritage non potranno i risultati attesi di assoluto rilievo al tempo stesso sociale ed economico in mancanza di cultura aziendale: il problema è macro, ma le soluzioni non potranno essere che di carattere micro. L’ostacolo da superare è la mancanza di sintonia con il sistema dei professional e (per conseguenza) con i sovrasistemi sociale e politico, dovuta al grave equivoco circa la nozione di “valore” (e di marketing) riferita al patrimonio culturale storico. Fondamentale errore di economisti e aziendalisti è di cercare l’intesa nella direzione più errata. Basti considerare: la letteratura anglosassone sul marketing culturale contrapposto al marketing commerciale e inteso in modo nient’affatto relazionale (da Kotler a Colbert, passando per Diggles, Mokwa, Melillo, Hirschman); la tesi di Throsby, secondo il quale «in campo economico il valore riguarda l’utilità, il prezzo e l’importanza che gli individui o i mercati attribuiscono alle merci” mentre nel settore culturale si riferirebbe a «particolari caratteristiche dei fenomeni culturali, esprimibili sia in termini specifici, come il valore del tono di una nota musicale o il valore di un colore in un quadro, che in termini generali, per indicare il merito o l’importanza di un’opera, un oggetto, un’esperienza o di un’altra forma di espressione culturale». Questi assunti determinano: una percezione del valore del capitale culturale commisurata a troppo modeste utilità collettive e private; gestioni inefficaci e inefficienti, perché autoreferenziali; progressiva riduzione del valore del capitale culturale con il rischio di comprometterne la stessa sopravvivenza (perché diminuisce la preferenza di comunità). Tali archetipi attengono a una nozione di “valore” del capitale culturale: limitata al “valore in sé” (embedded) anziché aperta al molto più ampio (e molto segmentabile) valore d’uso (percepito); perciò scollegata dal momento dello scambio e del consumo; limitata a benefici immateriali e, per essi, quasi soltanto alle componenti estetiche, simboliche, emozionali; limitata alla produzione di beni di consumo e non anche di produzione; limitata ad un solo (ridotto) target di domanda; viziata dalla confusione fra stock e prodotto. L’innovazione necessaria deve far leva sull’aggiornamento avviato negli anni ’60-’70 degli statuti disciplinari delle scienze umane, a cominciare dall’archeologia, dalla storia dell’arte, dalla storiografia tout-court. Conseguentemente si dovrà (e si potrà): pervenire ad una univoca nozione di “bene culturale” in ampia accezione antropologica, sistemica, territoriale; evitare la confusione fra arte e cultura; pervenire ad una nozione di valore quale utilità e riconoscerne puntualmente la vastissima gamma; convenire che il valore in ogni parte della sua gamma (materiale e immateriale che sia) è misurabile anche in termini monetari; pervenire ad una nozione di marketing culturale di specie relazionale e non più contrapposta al marketing commerciale; definire esattamente la nozione di museo-azienda. In questa direzione si potrà giungere a definire precisamente e distintamente una branca di studi del Cultural Heritage Economics, prendendo atto che i processi di produzione, di scambio e di consumo concernenti questo specifico ambito hanno troppo poco in comune con le performing arts, le industrie culturali e il molto altro fin qui incoerentemente ammucchiato sotto la generica e astratta insegna della “economia della cultura”.
2011
9788860562487
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