La scritturalità di Caro è delineata dagli estremi che hanno delimitato l’orizzonte della grande avventura della sua vita, allineandolo al percorso politico dei Farnese e al contempo attrezzandolo per scelte coraggiose nella creazione letteraria. Nel prosieguo di questa linea, Caro porta la riflessione sui problemi posti dal percorso futuro della letteratura e dalla questione attorno alla lingua, giacché viene a realizzarsi attraverso la regia con cui dirige la sua personalità di letterato. La sua versione della Retorica di Aristotele rientra nel novero dell’impegno sulla trattatistica caratterizzante la visione pratica dei funzionari, così come la Apologia appartiene alla categoria dell’utile. Ma Caro finisce per delegare alla penna e al paradosso della scrittura la confessione delle passioni e la descrizione dei cedimenti alle debolezze della natura, affidandole la riscrittura delle contraddizioni del Classico, appropriandosene nel librarsi nell’anelito verso la grande tradizione, appagandosene nel ricondurla alla dimensione della sua contemporaneità. La partita è giocata sul riuso concesso dalla pratica della imitazione, in rapporto alla stessa latitudine interpretativa rivelatasi nel Cinquecento; il Caro stupisce per la maestria con cui ci conduce attraverso la specializzazione dei registri linguistici e per la capacità di trasposizione delle atmosfere, fino a creare immagini e spettacolo. La conversione dei mondi appare istantanea e semplice per quanto deve essere stata meditata e analizzata, soprattutto mediante il lavorìo dell’imitazione dei contenuti, dell’analisi del lessico, della grammatica delle forme. Crea di getto la sua Eneide, come progetto ideato nell’intersezione fra «una pruova d’un poema che mi cadde ne l’animo di fare dopo che mi allargai da la servitù» che è svolta nella prospettiva di «una tradozione de’ libri di Virgilio» (lettera al Varchi, 14 settembre 1565). Per il buon risultato ha preferito all’«ottava rima [...i…] versi sciolti», ma la fiducia per affrontare la fatica deve derivargli dalla consapevolezza della idoneità della sua preparazione. Per riprendere Benedetto Varchi, egli è dotato di uno stile «largo, chiaro, fiorito e liberale» (così nell’Hercolano IX, 402), basato sulle armonie foniche, sulle capacità metamorfiche della parola, sulle variazioni sintattiche. Quando si assiste al prorompente apparire, in corrispondenza della fase ultima della sua vita, del progettodell’Eneide, Caro sembra aver distratto l’attenzione da una precedente e alternativa pianificazione. La traduzione d’arte dell’Eneide, questa “fantasia” in cui vi è «entrato a caso» e vi ha «perseverato non volendo», traducendo Virgilio «per trattenimento de lo scioperio piuttosto che per impresa» (ivi), sarebbe iniziata per “ischerzo”, immaginata come esercizio, “pruova”, funzionale alla composizione di un poema adatto all’epica dei tempi moderni, ottenuto «traducendo d’una lingua in un’altra», da mettere in gara con l’originale latino per «la ricchezza e la capacità di questa lingua [italiana], contro l’opinion di quelli che asseriscono che non può aver poema eroico, né arte, né voci da esplicar concetti poetici» (lettera al Varchi, 14 settembre 1565). Si tratta per Caro di mettere in campo una scrittura aperta a innovazioni figurative e creative, come combinazione di fermenti danteschi, petrarcheschi e di eroico ariostesco. La procedura traslativa porta al rimaneggiamento del contenuto in molti luoghi e produce l’incremento espositivo che finisce per essere arricchito di un terzo rispetto al testo virgiliano. Né è un procedimento ignoto alla cultura dell’epoca: un cinquantennio prima della traduzione di Caro, nel 1513, l’Eneados dello scozzese Gavin Douglas mostra una pari amplificazione ottenuta per il tramite della ridondanza lessicale. Comunque sia, nel concepire la sua traduzione, Caro asserisce che: a) la realtà della cultura e della lingua d’Italia rispetto a quella dell’antica Roma; b) la relazione fra l’adeguatezza della lingua e la qualità dei suoi scrittori; c) l’impossibilità di creare le condizioni d’impiego delle lingue classiche. E, per quanto attiene al metodo traduttivo, afferma che: a) le parole sono in funzione degli argomenti, che possono essere espressi mediante diverse formulazioni giacché tale procedura aiuterebbe a riprodurre più esattamente il pensiero dell’originale; b) la costruzione della frase è dipendente dalla decostruzione della struttura dell’originale i cui pezzi smontati vengono assemblati nella lingua di arrivo. Con tali premesse, Caro si colloca sulla stessa linea dei teorici del pensiero linguistico rinascimentale come viene in particolare a sostanziarsi nel Dialogo delle lingue di Sperone Speroni. Fausto da Longiano (Dialogo del modo de lo tradurre, 1556) non esita a equiparare i “convertitori” ai “sovertitori” nel momento in cui questi vengano meno alla delicatezza del loro incarico. Né si lesinano gli insulti per gli inetti, come nelle Pistole vulgari (1539) di Nicolò Franco: «Ser Traditori miei, se non sapete far altro che tradire i libri, voi ve ne anderete bel bello a cacare senza candela» (così ne La risposta della lucerna). L’accanimento verbale è la patina superficiale dell’attenzione dimostrata verso questo delicato aspetto della comunicazione dalla profonda portata innovativa, su cui gli intellettuali, sia laici sia religiosi, si confrontano e si sfidano per assicurarsene la gestione e per provvedere alla necessaria manipolazione. Il modo di sentire che evolve nella accademia italiana si riverbera subito nella Francia con cui costanti e strette sono le relazioni. La Défense et illustration de la langue française di Joachim Du Bellay (1549) adatta la ‘questione della lingua’, e in particolare la sofisticata posizione dello Speroni, alla teoria dell’imitazione dei Classici, al fine di adeguare il francese alle necessità comunicative, divenute impellenti dopo l’ordinanza di Villers-Cotterêts emanata da Francesco I nel 1539. Dopo aver accettato le forti sollecitazioni alla condivisione culturale, i Francesi reagiscono in spirito di autonomia e puntano a modellare la teoria della lingua sulla ipotesi di strutturazione del pensiero analitico, in modo da rendere le idee visibili e tangibili. Emerge una dimensione inedita di crescita, in cui la polimatia pluriculturale di cui partecipa l’Europa diviene un unico sistema di selva erudita di lettura plurilingue, con continui transiti fra le diverse Autorità, sia del passato sia coeve. In essa trova spazio il riuso come riscrittura, in condizione di elaborazione o di combinazione, amplificata o distillata, in un fragile equilibrio fra imitatio del modello, variazione e duplicazione, finché comincia a metabolizzarsi - quando si è giunti alla seconda metà del secolo – nel realismo della mimesi o nell’allegoria della rappresentazione. Caro riesce ad attrezzarsi di strumenti idonei attraverso i dibattiti sulla traduzione che animano il secolo e si ispirano agli insegnamenti di Cicerone sul metodo della conversione di equivalenze interlinguistiche. C’è da parte sua la frequentazione, diretta e attraverso gli scritti, di una serie di intellettuali che fanno scuola, come il Varchi e il Tolomei, autori di acute anticipazioni su fenomeni linguistici, nonché la conoscenza di fini filologi, come Pietro Vettori. E’ soprattutto avvertita la consapevolezza della traduzione come ‘problema’ che traspone il livello tecnico al piano culturale, per mostrare le evidenti valenze politiche nel contesto di una epocale translatio studii et imperii dal mondo romano in quello contemporaneo. Nel clima di intercodificabilità, l’esperienza acquisita sulle traduzioni dal greco in latino è messa a frutto per le versioni in volgare. In precedenza, le riflessioni tecniche di Leonardo Bruni, espresse nel De interpretatione recta (nel 1420-1426 in margine alla sua versione latina dell’Ethica nicomachaea, del 1416-1418), sulla traduzione fra lingue classiche e la loro ripresa nell’Apologeticus (del 1456-1459) di Gianozo Manetti avevano diffuso la teoria della intercodificabilità garantita dal rispetto di una serie di requisiti sui quali fondare l'adattamento e la manipolazione dei materiali tematici. La perfetta comprensione del testo di partenza e la competenza del registro della lingua di arrivo debbono riuscire a esprimere un prodotto omologo, che, andando oltre le parole, riproduca le strutture ritmiche e l’armonia frastica (cola et commata et periodos […] observare) e che, conservando le particolarità e gli ornati del linguaggio, imiterà lo stile dell’originale. La traduzione è infatti un’opera di abilità (ars quae peritiam flagitat […] magna res ac difficilis) e il traduttore è al tempo stesso un tecnico e un letterato, che unisce la competenza alla precisione (disciplina et litteris […] doctum et elegantem). E’ noto che ne La manière de bien traduire d’une langue en aultre (1540) Estienne Dolet espone in cinque postulati - che figuravano già come obiettivi in Bruni - l’elaborazione teorico-pratica di una procedura che è interpretata come una poetica traduttologica, resa operativa dal rispetto dell’originale e dalla consapevolezza delle proprietà della lingua di destinazione. Sul piano teorico si elabora la concezione dell’autonomia della poetica del testo tradotto (posterior) rispetto all’originale (prior) con il quale esso interagisce all’interno del medesimo statuto. A motivo di questa defocalizzazione del centro, viene meno una serie di consequenzialità, come il preconcetto della inferiorità della traduzione nei confronti dell’originale e la ricerca della fedeltà e della trasparenza in rapporto al testo di partenza.

Annibal Caro e la ricerca dell’epica perduta

POLI, Diego
2009-01-01

Abstract

La scritturalità di Caro è delineata dagli estremi che hanno delimitato l’orizzonte della grande avventura della sua vita, allineandolo al percorso politico dei Farnese e al contempo attrezzandolo per scelte coraggiose nella creazione letteraria. Nel prosieguo di questa linea, Caro porta la riflessione sui problemi posti dal percorso futuro della letteratura e dalla questione attorno alla lingua, giacché viene a realizzarsi attraverso la regia con cui dirige la sua personalità di letterato. La sua versione della Retorica di Aristotele rientra nel novero dell’impegno sulla trattatistica caratterizzante la visione pratica dei funzionari, così come la Apologia appartiene alla categoria dell’utile. Ma Caro finisce per delegare alla penna e al paradosso della scrittura la confessione delle passioni e la descrizione dei cedimenti alle debolezze della natura, affidandole la riscrittura delle contraddizioni del Classico, appropriandosene nel librarsi nell’anelito verso la grande tradizione, appagandosene nel ricondurla alla dimensione della sua contemporaneità. La partita è giocata sul riuso concesso dalla pratica della imitazione, in rapporto alla stessa latitudine interpretativa rivelatasi nel Cinquecento; il Caro stupisce per la maestria con cui ci conduce attraverso la specializzazione dei registri linguistici e per la capacità di trasposizione delle atmosfere, fino a creare immagini e spettacolo. La conversione dei mondi appare istantanea e semplice per quanto deve essere stata meditata e analizzata, soprattutto mediante il lavorìo dell’imitazione dei contenuti, dell’analisi del lessico, della grammatica delle forme. Crea di getto la sua Eneide, come progetto ideato nell’intersezione fra «una pruova d’un poema che mi cadde ne l’animo di fare dopo che mi allargai da la servitù» che è svolta nella prospettiva di «una tradozione de’ libri di Virgilio» (lettera al Varchi, 14 settembre 1565). Per il buon risultato ha preferito all’«ottava rima [...i…] versi sciolti», ma la fiducia per affrontare la fatica deve derivargli dalla consapevolezza della idoneità della sua preparazione. Per riprendere Benedetto Varchi, egli è dotato di uno stile «largo, chiaro, fiorito e liberale» (così nell’Hercolano IX, 402), basato sulle armonie foniche, sulle capacità metamorfiche della parola, sulle variazioni sintattiche. Quando si assiste al prorompente apparire, in corrispondenza della fase ultima della sua vita, del progettodell’Eneide, Caro sembra aver distratto l’attenzione da una precedente e alternativa pianificazione. La traduzione d’arte dell’Eneide, questa “fantasia” in cui vi è «entrato a caso» e vi ha «perseverato non volendo», traducendo Virgilio «per trattenimento de lo scioperio piuttosto che per impresa» (ivi), sarebbe iniziata per “ischerzo”, immaginata come esercizio, “pruova”, funzionale alla composizione di un poema adatto all’epica dei tempi moderni, ottenuto «traducendo d’una lingua in un’altra», da mettere in gara con l’originale latino per «la ricchezza e la capacità di questa lingua [italiana], contro l’opinion di quelli che asseriscono che non può aver poema eroico, né arte, né voci da esplicar concetti poetici» (lettera al Varchi, 14 settembre 1565). Si tratta per Caro di mettere in campo una scrittura aperta a innovazioni figurative e creative, come combinazione di fermenti danteschi, petrarcheschi e di eroico ariostesco. La procedura traslativa porta al rimaneggiamento del contenuto in molti luoghi e produce l’incremento espositivo che finisce per essere arricchito di un terzo rispetto al testo virgiliano. Né è un procedimento ignoto alla cultura dell’epoca: un cinquantennio prima della traduzione di Caro, nel 1513, l’Eneados dello scozzese Gavin Douglas mostra una pari amplificazione ottenuta per il tramite della ridondanza lessicale. Comunque sia, nel concepire la sua traduzione, Caro asserisce che: a) la realtà della cultura e della lingua d’Italia rispetto a quella dell’antica Roma; b) la relazione fra l’adeguatezza della lingua e la qualità dei suoi scrittori; c) l’impossibilità di creare le condizioni d’impiego delle lingue classiche. E, per quanto attiene al metodo traduttivo, afferma che: a) le parole sono in funzione degli argomenti, che possono essere espressi mediante diverse formulazioni giacché tale procedura aiuterebbe a riprodurre più esattamente il pensiero dell’originale; b) la costruzione della frase è dipendente dalla decostruzione della struttura dell’originale i cui pezzi smontati vengono assemblati nella lingua di arrivo. Con tali premesse, Caro si colloca sulla stessa linea dei teorici del pensiero linguistico rinascimentale come viene in particolare a sostanziarsi nel Dialogo delle lingue di Sperone Speroni. Fausto da Longiano (Dialogo del modo de lo tradurre, 1556) non esita a equiparare i “convertitori” ai “sovertitori” nel momento in cui questi vengano meno alla delicatezza del loro incarico. Né si lesinano gli insulti per gli inetti, come nelle Pistole vulgari (1539) di Nicolò Franco: «Ser Traditori miei, se non sapete far altro che tradire i libri, voi ve ne anderete bel bello a cacare senza candela» (così ne La risposta della lucerna). L’accanimento verbale è la patina superficiale dell’attenzione dimostrata verso questo delicato aspetto della comunicazione dalla profonda portata innovativa, su cui gli intellettuali, sia laici sia religiosi, si confrontano e si sfidano per assicurarsene la gestione e per provvedere alla necessaria manipolazione. Il modo di sentire che evolve nella accademia italiana si riverbera subito nella Francia con cui costanti e strette sono le relazioni. La Défense et illustration de la langue française di Joachim Du Bellay (1549) adatta la ‘questione della lingua’, e in particolare la sofisticata posizione dello Speroni, alla teoria dell’imitazione dei Classici, al fine di adeguare il francese alle necessità comunicative, divenute impellenti dopo l’ordinanza di Villers-Cotterêts emanata da Francesco I nel 1539. Dopo aver accettato le forti sollecitazioni alla condivisione culturale, i Francesi reagiscono in spirito di autonomia e puntano a modellare la teoria della lingua sulla ipotesi di strutturazione del pensiero analitico, in modo da rendere le idee visibili e tangibili. Emerge una dimensione inedita di crescita, in cui la polimatia pluriculturale di cui partecipa l’Europa diviene un unico sistema di selva erudita di lettura plurilingue, con continui transiti fra le diverse Autorità, sia del passato sia coeve. In essa trova spazio il riuso come riscrittura, in condizione di elaborazione o di combinazione, amplificata o distillata, in un fragile equilibrio fra imitatio del modello, variazione e duplicazione, finché comincia a metabolizzarsi - quando si è giunti alla seconda metà del secolo – nel realismo della mimesi o nell’allegoria della rappresentazione. Caro riesce ad attrezzarsi di strumenti idonei attraverso i dibattiti sulla traduzione che animano il secolo e si ispirano agli insegnamenti di Cicerone sul metodo della conversione di equivalenze interlinguistiche. C’è da parte sua la frequentazione, diretta e attraverso gli scritti, di una serie di intellettuali che fanno scuola, come il Varchi e il Tolomei, autori di acute anticipazioni su fenomeni linguistici, nonché la conoscenza di fini filologi, come Pietro Vettori. E’ soprattutto avvertita la consapevolezza della traduzione come ‘problema’ che traspone il livello tecnico al piano culturale, per mostrare le evidenti valenze politiche nel contesto di una epocale translatio studii et imperii dal mondo romano in quello contemporaneo. Nel clima di intercodificabilità, l’esperienza acquisita sulle traduzioni dal greco in latino è messa a frutto per le versioni in volgare. In precedenza, le riflessioni tecniche di Leonardo Bruni, espresse nel De interpretatione recta (nel 1420-1426 in margine alla sua versione latina dell’Ethica nicomachaea, del 1416-1418), sulla traduzione fra lingue classiche e la loro ripresa nell’Apologeticus (del 1456-1459) di Gianozo Manetti avevano diffuso la teoria della intercodificabilità garantita dal rispetto di una serie di requisiti sui quali fondare l'adattamento e la manipolazione dei materiali tematici. La perfetta comprensione del testo di partenza e la competenza del registro della lingua di arrivo debbono riuscire a esprimere un prodotto omologo, che, andando oltre le parole, riproduca le strutture ritmiche e l’armonia frastica (cola et commata et periodos […] observare) e che, conservando le particolarità e gli ornati del linguaggio, imiterà lo stile dell’originale. La traduzione è infatti un’opera di abilità (ars quae peritiam flagitat […] magna res ac difficilis) e il traduttore è al tempo stesso un tecnico e un letterato, che unisce la competenza alla precisione (disciplina et litteris […] doctum et elegantem). E’ noto che ne La manière de bien traduire d’une langue en aultre (1540) Estienne Dolet espone in cinque postulati - che figuravano già come obiettivi in Bruni - l’elaborazione teorico-pratica di una procedura che è interpretata come una poetica traduttologica, resa operativa dal rispetto dell’originale e dalla consapevolezza delle proprietà della lingua di destinazione. Sul piano teorico si elabora la concezione dell’autonomia della poetica del testo tradotto (posterior) rispetto all’originale (prior) con il quale esso interagisce all’interno del medesimo statuto. A motivo di questa defocalizzazione del centro, viene meno una serie di consequenzialità, come il preconcetto della inferiorità della traduzione nei confronti dell’originale e la ricerca della fedeltà e della trasparenza in rapporto al testo di partenza.
2009
9788860561442
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