La storia del settore bieticolo-saccarifero fra l’inizio del XIX secolo e la Seconda guerra mondiale, viene ripercorsa in relazione ai mutamenti che intervengono nel contesto nazionale e internazione e, ciò che è nuovo, analizzando l’operato dei maggiori protagonisti: i raffinatori, i fabbricanti di zucchero, i bieticoltori, le banche e ovviamente lo Stato, la cui politica doganale e fiscale fece dello zucchero un ‘eroe del bilancio’, una fonte di profitti altissimi, di più modesti ma apprezzabili introiti per i bieticultori e, di conseguenza, un alimento ben poco comune. Dalla ricerca emergono evidenze su aspetti fino ad ora ignoti: i motivi del ritardato avvio dell’industria saccarifera in Italia, le cause del fallimento degli zuccherifici impiantati fino agli anni ’80 dell’800, il ruolo dello Stato nella sperimentazione della nuova coltura e nell’avvio della ‘mania’ degli zuccherifici; le difficoltà che la coltivazione della bietola incontrò in Italia, dove si estese quasi unicamente nelle zone di bonifica recente; i rapporti conflittuali e collusivi tra i tre segmenti della filiera produttiva: raffinatori, zuccherieri e bieticoltori, risolti, in parte, attraverso processi di integrazione orizzontale e verticale - estesa, in taluni casi, alla coltivazione di barbabietole con l’acquisto di grandi tenute nelle zone di recente bonifica nella Valle Padana. Che la fabbricazione dello zucchero potesse essere un’industria agraria, ovvero promossa come altrove in Europa da grandi proprietari terrieri, fu una possibilità che sfumò entro il 1904, quando fu costituita l’Unione Zuccheri e tre grandi imprese genovesi, due delle quali già operanti nella raffinazione, emersero come le principali protagoniste, perché riuscirono a coinvolgere, in posizione minoritaria, i proprietari terrieri nella costituzione di nuovi zuccherifici, impedirono con tutti i mezzi l’integrazione a valle delle fabbriche ‘indipendenti’ (controllate esclusivamente da agricoltori), cui mossero guerra con una crisi di sovrapproduzione ben orchestrata e seguita da facili acquisizioni, e infine rastrellarono mezzi sul mercato dei capitali con il determinante appoggio delle banche miste, arrivando a perfezionare il controllo del settore con la crisi del 1907. Pur in mancanza di documentazione d’impresa, di questi 3 gruppi ma anche di altre minori società si è cercato di ricostruire le strategie di crescita (integrazione e diversificazione); le modalità di lotta - e gli accordi- contro i nuovi entranti: le società estere o, dopo le “guerre parallele”, le imprese di distillazione; le molte forme di azione lobbistica nei confronti dello stato, tra cui le ricorrenti crisi di sovrapproduzione con conseguente chiusura delle fabbriche, che spingevano i coltivatori, gli operai e i deputati delle zone bieticole a sostenere le richieste degli industriali. Negli anni venti, quando scalate e fallimenti minarono gli assetti proprietari di alcune imprese, le banche miste ebbero un ruolo di primo piano nel determinare la riallocazione del controllo e la ‘razionalizzazione’ di esso tramite la formazione di 2 gruppi, il cui assetto piramidale culminava in holding con azioni a voto plurimo, perfezionamento estremo di un capitalismo “a suffragio ristretto”, nel quale si teorizzò e si attuò la piena “indipendenza” delle società saccarifere e l’“autonomia” degli amministratori rispetto agli azionisti. Furono in gran parte posti sotto controllo anche gli zuccherifici sorti nel boom 1923-24, in gran parte promosso dai maggiori gruppi, e, dopo una serie di fusioni, l’Eridania, che assorbì la Ligure-Lombarda, e La Società Italiana arrivarono a coprire oltre il 50% del mercato nazionale, come mostrano le quote di partecipazione al nuovo cartello: Il Consorzio nazionale produttori zucchero (Cnpz). Perpetuando le accresciute funzioni assunte nel corso della Prima guerra mondiale dall’organizzazione degli industriali e dei bieticoltori (l’Associazione nazionale bieticoltori – Anb- costituita nel 1917), ebbe funzioni ben più estese dell’ Unione zuccheri. Ovunque in Europa, bieticoltori e zuccherieri fornirono i più precoci e compiuti esempi di organizzazione e coordinamento degli interessi e non per caso il settore bieticolo-saccarifero fu considerato dal regime fascista un modello ante litteram del corporativismo. Il Cnpz e l’Anb, consociati dal contratto di coltivazione ‘a titolo e a riferimento’, con la costituzione della Corporazione delle bietole e dello zucchero e ancor più con i ‘piani autarchici’ ebbero crescenti anche se non eguali poteri, concorrendo a disciplinare: la capacità produttiva e la superficie da destinare a bietole; la produzione i prezzi e la qualità dei prodotti (bietole, zucchero, sementi e alcool); le politiche fiscali e doganali, le relazioni con le industrie correlate; la ripartizione del ricavo fra agricoltori, industriali, commercianti e fisco. Gli zuccherieri dovettero pagare alcuni scotti – la costruzione di zuccherifici e distillerie nelle colonie e nelle zone bonificate nel Mezzogiorno, cara a Mussolini – ma furono i bieticoltori a pagare i maggiori: L’Anb, riportata all’ordine con la sostituzione del presidente Casalicchio, dovette moderare sostanzialmente le pretese degli associati; nella depressione degli anni ’30, non riuscì a far approvare il progetto di estendere la coltivazione di bietole per destinarle alla fabbricazione di alcol carburante, come avvenne in Francia e in altri stati; subì, infine, le conseguenze della scelta autarchica nella produzione di sementi, che fu disinvoltamente intrapresa e monopolizzata dai gruppi saccariferi. Tuttavia, se i piani autarchici ‘effetivi’ furono quasi sempre rispettati fu perché gli agricoltori ebbero una parte crescente nella ripartizione dei ricavi e dunque la superficie a bietole tenne fino al 1943.

Il capitalismo organizzato. Il settore saccarifero in Italia 1800-1945

SABBATUCCI SEVERINI, Patrizia
2004-01-01

Abstract

La storia del settore bieticolo-saccarifero fra l’inizio del XIX secolo e la Seconda guerra mondiale, viene ripercorsa in relazione ai mutamenti che intervengono nel contesto nazionale e internazione e, ciò che è nuovo, analizzando l’operato dei maggiori protagonisti: i raffinatori, i fabbricanti di zucchero, i bieticoltori, le banche e ovviamente lo Stato, la cui politica doganale e fiscale fece dello zucchero un ‘eroe del bilancio’, una fonte di profitti altissimi, di più modesti ma apprezzabili introiti per i bieticultori e, di conseguenza, un alimento ben poco comune. Dalla ricerca emergono evidenze su aspetti fino ad ora ignoti: i motivi del ritardato avvio dell’industria saccarifera in Italia, le cause del fallimento degli zuccherifici impiantati fino agli anni ’80 dell’800, il ruolo dello Stato nella sperimentazione della nuova coltura e nell’avvio della ‘mania’ degli zuccherifici; le difficoltà che la coltivazione della bietola incontrò in Italia, dove si estese quasi unicamente nelle zone di bonifica recente; i rapporti conflittuali e collusivi tra i tre segmenti della filiera produttiva: raffinatori, zuccherieri e bieticoltori, risolti, in parte, attraverso processi di integrazione orizzontale e verticale - estesa, in taluni casi, alla coltivazione di barbabietole con l’acquisto di grandi tenute nelle zone di recente bonifica nella Valle Padana. Che la fabbricazione dello zucchero potesse essere un’industria agraria, ovvero promossa come altrove in Europa da grandi proprietari terrieri, fu una possibilità che sfumò entro il 1904, quando fu costituita l’Unione Zuccheri e tre grandi imprese genovesi, due delle quali già operanti nella raffinazione, emersero come le principali protagoniste, perché riuscirono a coinvolgere, in posizione minoritaria, i proprietari terrieri nella costituzione di nuovi zuccherifici, impedirono con tutti i mezzi l’integrazione a valle delle fabbriche ‘indipendenti’ (controllate esclusivamente da agricoltori), cui mossero guerra con una crisi di sovrapproduzione ben orchestrata e seguita da facili acquisizioni, e infine rastrellarono mezzi sul mercato dei capitali con il determinante appoggio delle banche miste, arrivando a perfezionare il controllo del settore con la crisi del 1907. Pur in mancanza di documentazione d’impresa, di questi 3 gruppi ma anche di altre minori società si è cercato di ricostruire le strategie di crescita (integrazione e diversificazione); le modalità di lotta - e gli accordi- contro i nuovi entranti: le società estere o, dopo le “guerre parallele”, le imprese di distillazione; le molte forme di azione lobbistica nei confronti dello stato, tra cui le ricorrenti crisi di sovrapproduzione con conseguente chiusura delle fabbriche, che spingevano i coltivatori, gli operai e i deputati delle zone bieticole a sostenere le richieste degli industriali. Negli anni venti, quando scalate e fallimenti minarono gli assetti proprietari di alcune imprese, le banche miste ebbero un ruolo di primo piano nel determinare la riallocazione del controllo e la ‘razionalizzazione’ di esso tramite la formazione di 2 gruppi, il cui assetto piramidale culminava in holding con azioni a voto plurimo, perfezionamento estremo di un capitalismo “a suffragio ristretto”, nel quale si teorizzò e si attuò la piena “indipendenza” delle società saccarifere e l’“autonomia” degli amministratori rispetto agli azionisti. Furono in gran parte posti sotto controllo anche gli zuccherifici sorti nel boom 1923-24, in gran parte promosso dai maggiori gruppi, e, dopo una serie di fusioni, l’Eridania, che assorbì la Ligure-Lombarda, e La Società Italiana arrivarono a coprire oltre il 50% del mercato nazionale, come mostrano le quote di partecipazione al nuovo cartello: Il Consorzio nazionale produttori zucchero (Cnpz). Perpetuando le accresciute funzioni assunte nel corso della Prima guerra mondiale dall’organizzazione degli industriali e dei bieticoltori (l’Associazione nazionale bieticoltori – Anb- costituita nel 1917), ebbe funzioni ben più estese dell’ Unione zuccheri. Ovunque in Europa, bieticoltori e zuccherieri fornirono i più precoci e compiuti esempi di organizzazione e coordinamento degli interessi e non per caso il settore bieticolo-saccarifero fu considerato dal regime fascista un modello ante litteram del corporativismo. Il Cnpz e l’Anb, consociati dal contratto di coltivazione ‘a titolo e a riferimento’, con la costituzione della Corporazione delle bietole e dello zucchero e ancor più con i ‘piani autarchici’ ebbero crescenti anche se non eguali poteri, concorrendo a disciplinare: la capacità produttiva e la superficie da destinare a bietole; la produzione i prezzi e la qualità dei prodotti (bietole, zucchero, sementi e alcool); le politiche fiscali e doganali, le relazioni con le industrie correlate; la ripartizione del ricavo fra agricoltori, industriali, commercianti e fisco. Gli zuccherieri dovettero pagare alcuni scotti – la costruzione di zuccherifici e distillerie nelle colonie e nelle zone bonificate nel Mezzogiorno, cara a Mussolini – ma furono i bieticoltori a pagare i maggiori: L’Anb, riportata all’ordine con la sostituzione del presidente Casalicchio, dovette moderare sostanzialmente le pretese degli associati; nella depressione degli anni ’30, non riuscì a far approvare il progetto di estendere la coltivazione di bietole per destinarle alla fabbricazione di alcol carburante, come avvenne in Francia e in altri stati; subì, infine, le conseguenze della scelta autarchica nella produzione di sementi, che fu disinvoltamente intrapresa e monopolizzata dai gruppi saccariferi. Tuttavia, se i piani autarchici ‘effetivi’ furono quasi sempre rispettati fu perché gli agricoltori ebbero una parte crescente nella ripartizione dei ricavi e dunque la superficie a bietole tenne fino al 1943.
2004
9788831784160
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