Il testo affronta il problema della distinzione, introdotta da W. F. R. Hardie nel 1965, tra una concezione «inclusiva» e una concezione «dominante» della felicità in Aristotele. In via generale, per la prima, la felicità sarebbe legata all’esercizio di tutte le virtù; per la seconda, all’attività della sapienza. Alcune affermazioni di Aristotele sembrano supportare ora l’una, ora l’altra posizione. A favore della concezione «inclusiva»: «la felicità dovrà essere l’attività di una vita perfetta secondo virtù perfetta (zoes teleias energeia kat’areten teleian)»; «la felicità è una certa attività dell’anima secondo virtù completa (kat’areten teleian)»; per essere felici «c’è bisogno di una virtù completa e di una vita completa (dei […] kai aretes teleias kai biou teleiou)». A favore della concezione «dominante»: «se la felicità è attività secondo virtù, è ragionevole che lo sia secondo la più eccellente (eulogon kata ten kratisten), e questa verrà a essere la virtù di ciò che è migliore (tou aristou)», per cui, siccome «l’intelletto (nous) è la cosa più divina che è in noi (en emin to theiotaton)», «la sua attività secondo la virtù propria (kata ten oikeian areten)», che è «attività teoretica (theoretike)», «verrà a essere la felicità perfetta (teleia eudaimonia)». Di ambedue le concezioni vi sono due posizioni: una moderata e una radicale. Per la posizione inclusiva radicale, la felicità in Aristotele comprenderebbe non solo l’esercizio di tutte le virtù ma anche il possesso e il godimento di tutto ciò che è desiderabile (Nagel, Ackrill, Nussbaum); per quella moderata, comprenderebbe l’esercizio non della sola sapienza, ma di tutte le virtù. Per la posizione dominante radicale, sarebbe felicità solo quella relativa all’attività della sapienza; per la posizione moderata, l’esito dell’esercizio della sapienza sarebbe la felicità perfetta, ma vi sarebbe anche la felicità, di grado inferiore, legata all’esercizio delle altre virtù. Nel merito, la distinzione che Aristotele pone tra «condizioni (hon aneu)» della felicità (come salute, disponibilità di beni esteriori, tempo libero) e «parti (mere)» della felicità (virtù dianoetiche ed etiche) e il suo esplicito riconoscimento di una felicità di secondo livello dimostrano l’infondatezza delle posizioni radicali sia della concezione inclusiva che di quella dominante. Le versioni moderate, invece, delle due concezioni della felicità in Aristotele sono accettabili, e tra loro compatibili, nella sostanza: per la posizione inclusiva, la felicità non è solo quella della theoria, ma ha un suo posto anche nell’esercizio di tutte le virtù; per la posizione dominante, la felicità dell’esercizio della sapienza è perfetta, mentre quella delle attività delle altre virtù è «di secondo grado (deuteros)». In breve, vi sono in Aristotele due tipi di felicità, felicità perfetta e felicità di secondo livello, ambedue pur sempre felicità. Un’osservazione a margine della controversia. È sorprendente, da parte di alcuni studiosi di Aristotele, soprattutto di area inclusivistica, il tentativo di sminuire il valore della felicità come contemplazione in Aristotele. Una simile concezione sarebbe un’indebita generalizzazione delle preferenze personali dell’autore (Natali), proporrebbe come ideale un uomo contemplativo piuttosto strano (Kenny), sarebbe centrata sul divino e non sull’uomo (Nussbaum). Ora, si può anche non condividere ciò che Aristotele dice sulla felicità, ma non si può per questo travisarne il pensiero, censurarlo: bisogna prenderne atto e rispettarlo. Del resto, Aristotele, quando tesse le lodi della contemplazione come ciò che fa il sapiente simile agli dèi, intende esaltare l’uomo, non, come è sembrato ad alcuni, snaturarlo.

Sulla felicità in Aristotele

DE DOMINICIS, Emilio
2008-01-01

Abstract

Il testo affronta il problema della distinzione, introdotta da W. F. R. Hardie nel 1965, tra una concezione «inclusiva» e una concezione «dominante» della felicità in Aristotele. In via generale, per la prima, la felicità sarebbe legata all’esercizio di tutte le virtù; per la seconda, all’attività della sapienza. Alcune affermazioni di Aristotele sembrano supportare ora l’una, ora l’altra posizione. A favore della concezione «inclusiva»: «la felicità dovrà essere l’attività di una vita perfetta secondo virtù perfetta (zoes teleias energeia kat’areten teleian)»; «la felicità è una certa attività dell’anima secondo virtù completa (kat’areten teleian)»; per essere felici «c’è bisogno di una virtù completa e di una vita completa (dei […] kai aretes teleias kai biou teleiou)». A favore della concezione «dominante»: «se la felicità è attività secondo virtù, è ragionevole che lo sia secondo la più eccellente (eulogon kata ten kratisten), e questa verrà a essere la virtù di ciò che è migliore (tou aristou)», per cui, siccome «l’intelletto (nous) è la cosa più divina che è in noi (en emin to theiotaton)», «la sua attività secondo la virtù propria (kata ten oikeian areten)», che è «attività teoretica (theoretike)», «verrà a essere la felicità perfetta (teleia eudaimonia)». Di ambedue le concezioni vi sono due posizioni: una moderata e una radicale. Per la posizione inclusiva radicale, la felicità in Aristotele comprenderebbe non solo l’esercizio di tutte le virtù ma anche il possesso e il godimento di tutto ciò che è desiderabile (Nagel, Ackrill, Nussbaum); per quella moderata, comprenderebbe l’esercizio non della sola sapienza, ma di tutte le virtù. Per la posizione dominante radicale, sarebbe felicità solo quella relativa all’attività della sapienza; per la posizione moderata, l’esito dell’esercizio della sapienza sarebbe la felicità perfetta, ma vi sarebbe anche la felicità, di grado inferiore, legata all’esercizio delle altre virtù. Nel merito, la distinzione che Aristotele pone tra «condizioni (hon aneu)» della felicità (come salute, disponibilità di beni esteriori, tempo libero) e «parti (mere)» della felicità (virtù dianoetiche ed etiche) e il suo esplicito riconoscimento di una felicità di secondo livello dimostrano l’infondatezza delle posizioni radicali sia della concezione inclusiva che di quella dominante. Le versioni moderate, invece, delle due concezioni della felicità in Aristotele sono accettabili, e tra loro compatibili, nella sostanza: per la posizione inclusiva, la felicità non è solo quella della theoria, ma ha un suo posto anche nell’esercizio di tutte le virtù; per la posizione dominante, la felicità dell’esercizio della sapienza è perfetta, mentre quella delle attività delle altre virtù è «di secondo grado (deuteros)». In breve, vi sono in Aristotele due tipi di felicità, felicità perfetta e felicità di secondo livello, ambedue pur sempre felicità. Un’osservazione a margine della controversia. È sorprendente, da parte di alcuni studiosi di Aristotele, soprattutto di area inclusivistica, il tentativo di sminuire il valore della felicità come contemplazione in Aristotele. Una simile concezione sarebbe un’indebita generalizzazione delle preferenze personali dell’autore (Natali), proporrebbe come ideale un uomo contemplativo piuttosto strano (Kenny), sarebbe centrata sul divino e non sull’uomo (Nussbaum). Ora, si può anche non condividere ciò che Aristotele dice sulla felicità, ma non si può per questo travisarne il pensiero, censurarlo: bisogna prenderne atto e rispettarlo. Del resto, Aristotele, quando tesse le lodi della contemplazione come ciò che fa il sapiente simile agli dèi, intende esaltare l’uomo, non, come è sembrato ad alcuni, snaturarlo.
2008
9788854821774
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11393/40759
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