Articolo pubblicato in rivista di fascia A. La protologia è una filosofia dell’inizio, del cominciamento, variamente narrato in un racconto che arriva là dove il pensiero – e non la protologia – sembra mancare: pensare l’origine. Ma non c’è forse un che di paradossale in una filosofia che s'interroga sull’origine? Che s’interroga, cioè, su ciò presso cui non era? E non soltanto sull’origine in senso primo ed assoluto, ma anche su ogni singola origine, ogni singolo nascere e apparire nella scena del mondo; nascere e venire al mondo che conosciamo sempre dal racconto di altri, che tutt’al più possiamo vedere fotografato o filmato e che soltanto da altri sappiamo essere nostro. Eppure ci appartiene, così come ci appartiene ogni altro discorso, più generale, sull’origine. Ci appartiene come ciò che ci consegna al pensiero stesso, alla filosofia. Ecco il paradosso, allora: a mancare non è il discorso protologico, il logos del protos . Questo pensiero c’è, ma è un discorso secondo, che succede il momento cui manchiamo. Il momento che è nostro senza appartenerci, il nostro proprium che è alter. Possiamo pensare, allora, la protologia? Sì, certo, perché è stata pensata. In che modo? Forse, questo è un compito a venire non soltanto perché non esauribile nello spazio di rapide riflessioni ma anche perché è compito di una vita: approssimarci verso l’inizio, per tentativi. Approssimarci, tuttavia, verso un inizio mancante, come la lettera aleph, prima lettera dell’alfabeto ebraico, puro soffio non udibile con il quale la Scrittura non inizia, per iniziare invece con Bereshit, “in principio”, dunque con la seconda lettera. Ma proprio a questo inizio mancante, ossia ad aleph, pensò il matematico Georg Cantor, noto per “l’ipotesi del continuo di Cantor”, ossia un’equazione in cui è utilizzata la lettera א dell’alfabeto ebraico: 2 א0 = א 1.. L’equazione è un’asserzione circa la natura dell’infinito formulata da un matematico che non provava affatto disagio per il fatto che vi potessero essere diversi tipi di infinito, essendo i numeri infiniti anche se non abbiamo alcun modo di vedere, toccare o sentire ognuno di questi numeri senza fine. Partendo da quest’ipotesi, Cantor riuscì ad accertare l’infinito attuale piuttosto che l’idea sicura di infinito potenziale dei greci e dei suoi contemporanei. All’idea di infinito attuale il matematico giunse prendendo in considerazione gli insiemi, considerandoli come punti di accumulazione di un dato insieme di punti e finendo col chiedersi che cosa potesse accadere considerando l’insieme di tutti i punti di accumulazione dell’insieme dei punti di accumulazione. In questo modo, definito un insieme P, poté definire l’insieme dei punti di accumulazione P΄̀, l’insieme dei punti di accumulazione dei punti di accumulazione P΄΄, fino a P infinito. La scoperta di questo infinito attuale consiste in tale successione infinita di insiemi, che Cantor denominò "numeri transfiniti". Domandandosi poi quale fosse il numero cardinale atto a indicare l’insieme infinito, per far riferimento agli infiniti di numeri cardinali transfiniti decide di ricorrere alla lettera א , la prima lettera dell’alfabeto ebraico. L’aleph, per Cantor, è la pensabilità di un protos iniziale che tuttavia è secondo in quanto compreso sempre ex post (in quale altro modo lo potremmo conoscere, d’altronde?). Ma potrebbe ciò che è secondo essere compreso a prescindere da ciò che è primo? Di fatto, il secondo resta tale in rapporto al primo lo fa quale esso è, posizionandolo. Partire, dunque, dal deuteros per andare verso il protos e non viceversa, operando una sorta di riduzione alla “sfera del proprio” del deuteros e scoprendone il suo essere posizione, inevitabilmente ne rivela anche quel che “lo fa posizione” (ad esempio su una retta). Lo si scopre così, ovvero lo si scopre “per ciò che è”, per il protos che è il suo alter. Alter che non gli è indifferente, perché ne continua a segnare la posizione residuale senza perciò fissarlo: tra due numeri ve ne sono sempre infiniti altri e dunque il deuteros è transfinitamente ri-posizionato. Non è residuo invariabile e immutabile ma la sua proprietà sta nel variare e ri-posizionarsi transfinitamente. Che cosa, tuttavia, gli dà tale proprietà? Il protos, suo proprio alter. Ed in questo modo non soltanto il deuteros si scopre transfinito, ma si scopre transfinito per il proprio alter, per quel protos che è l’aleph transfinitamente generatrice. Il protos è rivelato nella sua natura transfinita dal deuteros di cui è proprium alter; alter che è scoperto come transfinito perché rende il deuteros stesso transfinito. Che, inoltre, non è opzionale ma è irrinunciabile, perché se fosse rinunciato si rinuncerebbe al deuteros stesso. La fluida transfinità del deuteros è posta dalla fluida transfinità del protos, che transita per scomparire, manca per inondare del proprio inizio ogni nuovo inizio. Che mancando, però, si fa trovare come il proprium irriducibile.

Possiamo pensare la protologia? Paralipomeni di un compito a venire

CANULLO, Carla
2007-01-01

Abstract

Articolo pubblicato in rivista di fascia A. La protologia è una filosofia dell’inizio, del cominciamento, variamente narrato in un racconto che arriva là dove il pensiero – e non la protologia – sembra mancare: pensare l’origine. Ma non c’è forse un che di paradossale in una filosofia che s'interroga sull’origine? Che s’interroga, cioè, su ciò presso cui non era? E non soltanto sull’origine in senso primo ed assoluto, ma anche su ogni singola origine, ogni singolo nascere e apparire nella scena del mondo; nascere e venire al mondo che conosciamo sempre dal racconto di altri, che tutt’al più possiamo vedere fotografato o filmato e che soltanto da altri sappiamo essere nostro. Eppure ci appartiene, così come ci appartiene ogni altro discorso, più generale, sull’origine. Ci appartiene come ciò che ci consegna al pensiero stesso, alla filosofia. Ecco il paradosso, allora: a mancare non è il discorso protologico, il logos del protos . Questo pensiero c’è, ma è un discorso secondo, che succede il momento cui manchiamo. Il momento che è nostro senza appartenerci, il nostro proprium che è alter. Possiamo pensare, allora, la protologia? Sì, certo, perché è stata pensata. In che modo? Forse, questo è un compito a venire non soltanto perché non esauribile nello spazio di rapide riflessioni ma anche perché è compito di una vita: approssimarci verso l’inizio, per tentativi. Approssimarci, tuttavia, verso un inizio mancante, come la lettera aleph, prima lettera dell’alfabeto ebraico, puro soffio non udibile con il quale la Scrittura non inizia, per iniziare invece con Bereshit, “in principio”, dunque con la seconda lettera. Ma proprio a questo inizio mancante, ossia ad aleph, pensò il matematico Georg Cantor, noto per “l’ipotesi del continuo di Cantor”, ossia un’equazione in cui è utilizzata la lettera א dell’alfabeto ebraico: 2 א0 = א 1.. L’equazione è un’asserzione circa la natura dell’infinito formulata da un matematico che non provava affatto disagio per il fatto che vi potessero essere diversi tipi di infinito, essendo i numeri infiniti anche se non abbiamo alcun modo di vedere, toccare o sentire ognuno di questi numeri senza fine. Partendo da quest’ipotesi, Cantor riuscì ad accertare l’infinito attuale piuttosto che l’idea sicura di infinito potenziale dei greci e dei suoi contemporanei. All’idea di infinito attuale il matematico giunse prendendo in considerazione gli insiemi, considerandoli come punti di accumulazione di un dato insieme di punti e finendo col chiedersi che cosa potesse accadere considerando l’insieme di tutti i punti di accumulazione dell’insieme dei punti di accumulazione. In questo modo, definito un insieme P, poté definire l’insieme dei punti di accumulazione P΄̀, l’insieme dei punti di accumulazione dei punti di accumulazione P΄΄, fino a P infinito. La scoperta di questo infinito attuale consiste in tale successione infinita di insiemi, che Cantor denominò "numeri transfiniti". Domandandosi poi quale fosse il numero cardinale atto a indicare l’insieme infinito, per far riferimento agli infiniti di numeri cardinali transfiniti decide di ricorrere alla lettera א , la prima lettera dell’alfabeto ebraico. L’aleph, per Cantor, è la pensabilità di un protos iniziale che tuttavia è secondo in quanto compreso sempre ex post (in quale altro modo lo potremmo conoscere, d’altronde?). Ma potrebbe ciò che è secondo essere compreso a prescindere da ciò che è primo? Di fatto, il secondo resta tale in rapporto al primo lo fa quale esso è, posizionandolo. Partire, dunque, dal deuteros per andare verso il protos e non viceversa, operando una sorta di riduzione alla “sfera del proprio” del deuteros e scoprendone il suo essere posizione, inevitabilmente ne rivela anche quel che “lo fa posizione” (ad esempio su una retta). Lo si scopre così, ovvero lo si scopre “per ciò che è”, per il protos che è il suo alter. Alter che non gli è indifferente, perché ne continua a segnare la posizione residuale senza perciò fissarlo: tra due numeri ve ne sono sempre infiniti altri e dunque il deuteros è transfinitamente ri-posizionato. Non è residuo invariabile e immutabile ma la sua proprietà sta nel variare e ri-posizionarsi transfinitamente. Che cosa, tuttavia, gli dà tale proprietà? Il protos, suo proprio alter. Ed in questo modo non soltanto il deuteros si scopre transfinito, ma si scopre transfinito per il proprio alter, per quel protos che è l’aleph transfinitamente generatrice. Il protos è rivelato nella sua natura transfinita dal deuteros di cui è proprium alter; alter che è scoperto come transfinito perché rende il deuteros stesso transfinito. Che, inoltre, non è opzionale ma è irrinunciabile, perché se fosse rinunciato si rinuncerebbe al deuteros stesso. La fluida transfinità del deuteros è posta dalla fluida transfinità del protos, che transita per scomparire, manca per inondare del proprio inizio ogni nuovo inizio. Che mancando, però, si fa trovare come il proprium irriducibile.
2007
Mursia editore
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