Il termine “commons” è al centro nell’ultimo trentennio di ricerche dal punto di vista economico, tecnologico e sociale, ben sintetizzate da J.Rifkin che sviluppa le teorie che hanno fruttato il Nobel per l’economia ad E. Ostrom. La teoria dei beni comuni (commons) preconizza l’avvento di una società in cui prevale il diritto all’accesso rispetto al diritto di proprietà. Osserviamo questo cambiamento nelle strategie di protagonisti dell’economia mondiale. È singolare tuttavia notare come gli sviluppi di questa fase di transizione abbiano dato forza a giganteschi gruppi sovranazionali (Google, Facebook, LinkedIn ..) il cui capitale è alimentato dalla partecipazione di un pubblico planetario “allo stesso pasto”. Il capitale di questi giganti dell’era digitale è il contenuto fornito dagli utenti e l’insieme degli algoritmi che gestiscono lo scambio regolato di informazione tra miliardi di persone. Come dovrebbero intelligentemente reagire i responsabili delle collezioni digitali (“digital heritage”) e le istituzioni che sopraintendono alla valorizzazione dei beni culturali in Italia? Quale lezione dovrebbero imparare dalla evoluzione delle compagnie private che sui contenuti generati dagli utenti hanno fondato i propri imperi? Il nostro suggerimento è quello di creare una stretta relazione tra responsabili dei contenuti e responsabili dei prosumers dei beni culturali, identificati in primo luogo con studenti e docenti di secondarie e università; e di creare un circuito virtuoso di valorizzazione basato sui dati dell’esperienza con il Digital Heritage, creando, mediante protocolli che si vanno affermando di recente (xAPI,OpenBadge), un MetaWeb dei Beni Culturali che serva da un lato le istituzioni educative per certificare le attività di apprendimento svolte dagli apprendenti, e dall’altro i responsabili del Web Culturale fornendo loro informazioni di profilazione assai più dettagliate che in passato

CommonS e CommonSpaces: per una applicazione dei principi CommonS ad un MetaWeb del Digital Heritage italiano

FELICIATI, Pierluigi;
2016-01-01

Abstract

Il termine “commons” è al centro nell’ultimo trentennio di ricerche dal punto di vista economico, tecnologico e sociale, ben sintetizzate da J.Rifkin che sviluppa le teorie che hanno fruttato il Nobel per l’economia ad E. Ostrom. La teoria dei beni comuni (commons) preconizza l’avvento di una società in cui prevale il diritto all’accesso rispetto al diritto di proprietà. Osserviamo questo cambiamento nelle strategie di protagonisti dell’economia mondiale. È singolare tuttavia notare come gli sviluppi di questa fase di transizione abbiano dato forza a giganteschi gruppi sovranazionali (Google, Facebook, LinkedIn ..) il cui capitale è alimentato dalla partecipazione di un pubblico planetario “allo stesso pasto”. Il capitale di questi giganti dell’era digitale è il contenuto fornito dagli utenti e l’insieme degli algoritmi che gestiscono lo scambio regolato di informazione tra miliardi di persone. Come dovrebbero intelligentemente reagire i responsabili delle collezioni digitali (“digital heritage”) e le istituzioni che sopraintendono alla valorizzazione dei beni culturali in Italia? Quale lezione dovrebbero imparare dalla evoluzione delle compagnie private che sui contenuti generati dagli utenti hanno fondato i propri imperi? Il nostro suggerimento è quello di creare una stretta relazione tra responsabili dei contenuti e responsabili dei prosumers dei beni culturali, identificati in primo luogo con studenti e docenti di secondarie e università; e di creare un circuito virtuoso di valorizzazione basato sui dati dell’esperienza con il Digital Heritage, creando, mediante protocolli che si vanno affermando di recente (xAPI,OpenBadge), un MetaWeb dei Beni Culturali che serva da un lato le istituzioni educative per certificare le attività di apprendimento svolte dagli apprendenti, e dall’altro i responsabili del Web Culturale fornendo loro informazioni di profilazione assai più dettagliate che in passato
2016
978-88-905077-6-2
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