Marie-François-Pierre Gontier, noto come Maine de Biran, è un autore la cui presenza nella filosofia italiana è stata carsica. La traduzione del mémoire «De l’aperception immédiate» può essere, allora, l’occasione per ripensare l’eredità di questo autore a partire dal plesso tematico «coscienza, corpo, libertà», plesso centrale del pensiero biraniano che proprio in quest’opera trova una delle espressioni più compiute. Il mémoire, redatto per partecipare al concorso che l’Académie des Sciences et Belles Lettres di Berlino bandiva per favorire l’indagine delle conoscenze umane, risale al 1807, tre anni dopo la cosiddetta «conversion di Maine de Biran al biranisme». Di tale «conversione», che coincide con la ripresa del lavoro filosofico interrotto nel 1803 per la morte della moglie, l’autore dà conto in una lettera inviata a Degérando quando scrive: «Gettando lo sguardo sui miei diari ho preso coscienza della totale rivoluzione accaduta nelle mie idee e nei miei sentimenti. Non mi conosco più: occorre che io apprenda di nuovo ciò che sapevo». Il 1804 è l’anno della stesura del Mémoire sur la décomposition de la pensée, mémoire che rappresenta un primo resoconto del biranisme. Nodo centrale di questo testo è la dottrina dell’effort, dottrina che il filosofo manterrà sostanzialmente immutata fino al 1812, anno cui risale la stesura dell’Essai sur les fondements de la psychologie e che costituisce il cuore dell’opera Sull’appercezione immediata. Tale dottrina non è, tuttavia, l’unico dei temi o spunti originali che caratterizzano la produzione biraniana. Nella Décomposition, così come in altre opere, l’autore presenta una vera e propria science de l’homme dove quest’ultimo è «oggetto» di un’accurata indagine che ne prende in esame tutti gli aspetti, dalla «fisicità» alla «peculiarità spirituale» per la quale egli è «soggetto». Tematiche, queste, che maturano nel dialogo con gli Idéologues, in particolare con Destutt de Tracy che, assieme a Cabanis, seguì e incoraggiò gli esordi filosofici biraniani. Da Tracy, l’autore riprende la questione della motilità intesa quale principio primo della conoscenza e degli atti dell’io, non tralasciando mai di dichiarare tanto la prossimità quanto la distanza dal pensiero dell’idéologue e, soprattutto, da quello di Condillac. Il motivo del distacco risiede nel fatto che, a un certo punto del suo percorso, Biran avverte l’esigenza di dare adeguata attenzione al tema che in quegli anni lo stava occupando, ossia il problema dell’origine della coscienza e del rapporto tra la volontà e l’involontario. Soprattutto, dopo essersi chiesto dove risieda la linea di confine tra volontario e involontario, egli afferma che, rifacendosi alle données physiologiques che ha raccolto, è possibile determinare l’esistenza di movimenti sentiti che, però, accadono in totale assenza della volontà e dello stato di coscienza. Sarà per affrontare tale questione, e soprattutto gli esiti che essa ha per la comprensione del soggetto, che l’autore s’impegnerà in una ricerca rivolta al contempo alla fisiologia e alla psicologia. Confrontandosi con la fisiologia del suo tempo, sia nei Rapports du physique et du moral de l’homme, sia nel Mémoire sur la décomposition de la pensée, Biran critica Stahl, che, contro Descartes, abbatteva le barriere innalzate tra il corpo e l’anima, ampliava i confini di quest’ultima restringendo quelli della materia e faceva dell’anima il principio unico tanto della riflessività del soggetto quanto della sua fisicità. Altro bersaglio della critica biraniana era la craniologia di Gall, medico tedesco le cui teorie incontravano in Francia un particolare favore. Questi spiegava ogni passione o attività dell’intelletto a partire dalla struttura del cranio e dalle sue protuberanze. In questo modo, da una parte era salvata l’esigenza di unità dell’organo sensoriale e intellettivo, dall’altra ne era fisiologicamente giustificata la molteplicità e varietà degli effetti. È dalla discussione di tali teorie che matura l’originalità della proposta biraniana, volta a preservare le esigenze della fisiologia e della psicologia passando attraverso la décomposition de la pensée. Quest’ultima si fonda sull’ipotesi che nell’uomo vi siano impressioni esclusivamente affettive, in cui lo stato di coscienza è totalmente assente. Se sarà possibile dimostrare la realtà di questo stato, scrive Biran, avremo trovato «una materia mutevole e molteplice, che sta al di fuori o nell’organo sensitivo eccitato da qualunque genere di impressione», mentre lo stato di coscienza sarà una «forma costante e identica esclusivamente fondata nel soggetto io e nell’appercezione dei propri atti». Biran trova l’espressione più adeguata alla sua teoria nel motto del medico e filosofo Hermann Boerhaave, «homo simplex in vitalitate, duplex in humanitate», definizione che, a partire dal 1804, rappresenterà il Leitmotiv della sua speculazione e che lo condurrà alla formulazione di un’originale psicofisiologia. Quest’ultima riguarderebbe quei dati appartenenti a una sorta di zona d’ombra intermedia, che precede immediatamente la luce della coscienza ma che, altrettanto immediatamente, segue lo stato di pura vitalità. E una delle più celebri affermazioni di Biran è quella per cui la luce della coscienza non rischiara immediatamente l’uomo che viene al mondo; inoltre, il «fatto» della coscienza, primo nell’ordine dei «fatti» dell’esistenza percepita e del pensiero, non è assolutamente tale nell’ordine temporale. «L’uomo, infatti, scrive l’autore, inizia a vivere e a sentire senza conoscere la vita (vivit et vitae nescius ipse suae)».

COSCIENZA, CORPO, LIBERTÀ RIPENSARE L’EREDITÀ DI MAINE DE BIRAN

CANULLO, Carla
2015-01-01

Abstract

Marie-François-Pierre Gontier, noto come Maine de Biran, è un autore la cui presenza nella filosofia italiana è stata carsica. La traduzione del mémoire «De l’aperception immédiate» può essere, allora, l’occasione per ripensare l’eredità di questo autore a partire dal plesso tematico «coscienza, corpo, libertà», plesso centrale del pensiero biraniano che proprio in quest’opera trova una delle espressioni più compiute. Il mémoire, redatto per partecipare al concorso che l’Académie des Sciences et Belles Lettres di Berlino bandiva per favorire l’indagine delle conoscenze umane, risale al 1807, tre anni dopo la cosiddetta «conversion di Maine de Biran al biranisme». Di tale «conversione», che coincide con la ripresa del lavoro filosofico interrotto nel 1803 per la morte della moglie, l’autore dà conto in una lettera inviata a Degérando quando scrive: «Gettando lo sguardo sui miei diari ho preso coscienza della totale rivoluzione accaduta nelle mie idee e nei miei sentimenti. Non mi conosco più: occorre che io apprenda di nuovo ciò che sapevo». Il 1804 è l’anno della stesura del Mémoire sur la décomposition de la pensée, mémoire che rappresenta un primo resoconto del biranisme. Nodo centrale di questo testo è la dottrina dell’effort, dottrina che il filosofo manterrà sostanzialmente immutata fino al 1812, anno cui risale la stesura dell’Essai sur les fondements de la psychologie e che costituisce il cuore dell’opera Sull’appercezione immediata. Tale dottrina non è, tuttavia, l’unico dei temi o spunti originali che caratterizzano la produzione biraniana. Nella Décomposition, così come in altre opere, l’autore presenta una vera e propria science de l’homme dove quest’ultimo è «oggetto» di un’accurata indagine che ne prende in esame tutti gli aspetti, dalla «fisicità» alla «peculiarità spirituale» per la quale egli è «soggetto». Tematiche, queste, che maturano nel dialogo con gli Idéologues, in particolare con Destutt de Tracy che, assieme a Cabanis, seguì e incoraggiò gli esordi filosofici biraniani. Da Tracy, l’autore riprende la questione della motilità intesa quale principio primo della conoscenza e degli atti dell’io, non tralasciando mai di dichiarare tanto la prossimità quanto la distanza dal pensiero dell’idéologue e, soprattutto, da quello di Condillac. Il motivo del distacco risiede nel fatto che, a un certo punto del suo percorso, Biran avverte l’esigenza di dare adeguata attenzione al tema che in quegli anni lo stava occupando, ossia il problema dell’origine della coscienza e del rapporto tra la volontà e l’involontario. Soprattutto, dopo essersi chiesto dove risieda la linea di confine tra volontario e involontario, egli afferma che, rifacendosi alle données physiologiques che ha raccolto, è possibile determinare l’esistenza di movimenti sentiti che, però, accadono in totale assenza della volontà e dello stato di coscienza. Sarà per affrontare tale questione, e soprattutto gli esiti che essa ha per la comprensione del soggetto, che l’autore s’impegnerà in una ricerca rivolta al contempo alla fisiologia e alla psicologia. Confrontandosi con la fisiologia del suo tempo, sia nei Rapports du physique et du moral de l’homme, sia nel Mémoire sur la décomposition de la pensée, Biran critica Stahl, che, contro Descartes, abbatteva le barriere innalzate tra il corpo e l’anima, ampliava i confini di quest’ultima restringendo quelli della materia e faceva dell’anima il principio unico tanto della riflessività del soggetto quanto della sua fisicità. Altro bersaglio della critica biraniana era la craniologia di Gall, medico tedesco le cui teorie incontravano in Francia un particolare favore. Questi spiegava ogni passione o attività dell’intelletto a partire dalla struttura del cranio e dalle sue protuberanze. In questo modo, da una parte era salvata l’esigenza di unità dell’organo sensoriale e intellettivo, dall’altra ne era fisiologicamente giustificata la molteplicità e varietà degli effetti. È dalla discussione di tali teorie che matura l’originalità della proposta biraniana, volta a preservare le esigenze della fisiologia e della psicologia passando attraverso la décomposition de la pensée. Quest’ultima si fonda sull’ipotesi che nell’uomo vi siano impressioni esclusivamente affettive, in cui lo stato di coscienza è totalmente assente. Se sarà possibile dimostrare la realtà di questo stato, scrive Biran, avremo trovato «una materia mutevole e molteplice, che sta al di fuori o nell’organo sensitivo eccitato da qualunque genere di impressione», mentre lo stato di coscienza sarà una «forma costante e identica esclusivamente fondata nel soggetto io e nell’appercezione dei propri atti». Biran trova l’espressione più adeguata alla sua teoria nel motto del medico e filosofo Hermann Boerhaave, «homo simplex in vitalitate, duplex in humanitate», definizione che, a partire dal 1804, rappresenterà il Leitmotiv della sua speculazione e che lo condurrà alla formulazione di un’originale psicofisiologia. Quest’ultima riguarderebbe quei dati appartenenti a una sorta di zona d’ombra intermedia, che precede immediatamente la luce della coscienza ma che, altrettanto immediatamente, segue lo stato di pura vitalità. E una delle più celebri affermazioni di Biran è quella per cui la luce della coscienza non rischiara immediatamente l’uomo che viene al mondo; inoltre, il «fatto» della coscienza, primo nell’ordine dei «fatti» dell’esistenza percepita e del pensiero, non è assolutamente tale nell’ordine temporale. «L’uomo, infatti, scrive l’autore, inizia a vivere e a sentire senza conoscere la vita (vivit et vitae nescius ipse suae)».
2015
Vita e Pensiero
Internazionale
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