Volontarista o razionalista? Nel caso di Guglielmo di Ockham la risposta non è così scontata. La teoria del diritto naturale a cui il filosofo inglese dedica molte pagine delle sue opere politiche – scritte mentre si trova in esilio a Monaco di Baviera per aver sostenuto le ragioni dei francescani che avevano ritenuto lecito (in nome del diritto naturale) rinunciare ai diritti di proprietà – ci offre l’occasione per tentare una nuova lettura del suo pensiero in tema di scienza morale. Sembra infatti superabile la ben nota interpretazione che lo ha presentato come il sostenitore di un’etica individualistica, scettica e arbitraria oltre che come il teorico della moderna teoria del ‘diritto soggettivo’. Occupandosi di temi politici il filosofo inglese trattò per la prima volta di ius naturale, non avendo mai affrontato l’argomento prima dell’esilio sebbene la sua attenzione (in opere come i Commenti alle Sentenze e i Quodlibeta) si fosse spesso concentrata sulla scienza morale, sulla prudentia come virtù pratica, sul ruolo della recta ratio che permette alla volizione di essere virtuosa. Le opere politiche nelle quali il tema del diritto naturale mantiene una sua centralità sono l’Opus nonaginta dierum – la cui composizione fu richiesta dagli stessi francescani che avevano condiviso con lui la scomunica e l’esilio a partire dal 1328 – e soprattutto il Dialogus inter magistrum et discipulum, grazie al quale Guglielmo ci offre la sua originale teoria sui tre modi del diritto naturale. Nell’esaminare i rapporti tra il potere secolare e l’autorità spirituale, il filosofo segue una tendenza molto diffusa nella trattatistica politica del Trecento. In questo contesto pone una particolare attenzione ai limiti normativi rivendicati per arginare possibili sconfinamenti di tali poteri, assumendo una prospettiva che una consolidata tradizione giuridica aveva già introdotto; come i suoi contemporanei, egli riconosce nel diritto naturale e nella legge divina la giusta misura di ogni legge umana. Questa ricerca indaga sui numerosi intrecci tra scienza morale e teoria del diritto naturale, dandone una visione d’insieme. La teoria della conoscenza ockhamiana enfatizza il ruolo della ragione attraverso la quale si rendono evidenti i principia per se nota che, nel Dialogus, sono a loro volta presentati come quegli iura naturalia universali e immutabili, a proposito dei quali non è possibile dubitare. La potentia intellectiva ci offre due distinte tipologie: l’actus apprehensivus e l’actus iudicativus. Il primo permette di apprendere i termini (incomplexa) e tutto ciò che riguarda le potenzialità dell’intelletto nella fase dell’apprendimento. Con il secondo, successivo, l’intelletto assente o dissente su ciò che ha appreso. L’evidenza assume un ruolo centrale: essa garantisce affinché l’intelletto non si inganni quando la conoscenza è ‘naturale’ e permette di formulare un giudizio di assenso circa la verità di una proposizione. Nel Prologo ai Commenti alle Sentenze, il filosofo spiega chiaramente che la notitia evidens è più ampia ed estesa della scientia in senso stretto; quest’ultima infatti si limiterebbe a proposizioni necessarie (qui l’evidenza riguarderebbe i princìpi e le conclusioni che ne seguono), mentre la notitia evidente può aversi anche di proposizioni contingenti. Nel Prologo egli insiste sulla notitia intuitiva rerum pure intelligibilium (distinguendo sensibilia e intelligibilia) e afferma che le conclusioni pratiche de intelligibilibus sono evidentissime. C’è una verità che la ragione può mettere in luce e questa non contraddice la verità di fede. Nel campo della filosofia morale l’attività speculativa di «theologi et veri philosophi» converge nella conoscenza del diritto naturale. La distinzione ockhamiana tra fede e conoscenza razionale non ha nulla di manicheo, anzi è stata meglio definita come «an irenic separatism». I commentatori medievali presentarono la teoria del diritto naturale esposta nel Dialogus una «pulchra definitio iuris naturalis». Guglielmo riconosce al diritto naturale l’immutabilità che la tradizione medievale gli aveva sempre attribuito, ma non nega una sua variabilità dovuta a quelle circostanze che hanno determinato il sorgere di forme di dominium non presenti nello status naturae institutae. Il filosofo propone dunque una teoria articolata che analizza lo ius naturale attraverso tre modi diversi ma non opposti tra loro, riponendo una grande fiducia nell’infallibilità della ragione umana: ognuno dei tre modi in cui si può intendere il diritto naturale mantiene intatta la sua razionalità. Evidenti ratione colligitur.

Razionalismo e giusnaturalismo in Guglielmo di Ockham. Scienza morale e teoria del diritto naturale. Intrecci e sovrapposizioni.

SALANITRI, Cristina
2014-01-01

Abstract

Volontarista o razionalista? Nel caso di Guglielmo di Ockham la risposta non è così scontata. La teoria del diritto naturale a cui il filosofo inglese dedica molte pagine delle sue opere politiche – scritte mentre si trova in esilio a Monaco di Baviera per aver sostenuto le ragioni dei francescani che avevano ritenuto lecito (in nome del diritto naturale) rinunciare ai diritti di proprietà – ci offre l’occasione per tentare una nuova lettura del suo pensiero in tema di scienza morale. Sembra infatti superabile la ben nota interpretazione che lo ha presentato come il sostenitore di un’etica individualistica, scettica e arbitraria oltre che come il teorico della moderna teoria del ‘diritto soggettivo’. Occupandosi di temi politici il filosofo inglese trattò per la prima volta di ius naturale, non avendo mai affrontato l’argomento prima dell’esilio sebbene la sua attenzione (in opere come i Commenti alle Sentenze e i Quodlibeta) si fosse spesso concentrata sulla scienza morale, sulla prudentia come virtù pratica, sul ruolo della recta ratio che permette alla volizione di essere virtuosa. Le opere politiche nelle quali il tema del diritto naturale mantiene una sua centralità sono l’Opus nonaginta dierum – la cui composizione fu richiesta dagli stessi francescani che avevano condiviso con lui la scomunica e l’esilio a partire dal 1328 – e soprattutto il Dialogus inter magistrum et discipulum, grazie al quale Guglielmo ci offre la sua originale teoria sui tre modi del diritto naturale. Nell’esaminare i rapporti tra il potere secolare e l’autorità spirituale, il filosofo segue una tendenza molto diffusa nella trattatistica politica del Trecento. In questo contesto pone una particolare attenzione ai limiti normativi rivendicati per arginare possibili sconfinamenti di tali poteri, assumendo una prospettiva che una consolidata tradizione giuridica aveva già introdotto; come i suoi contemporanei, egli riconosce nel diritto naturale e nella legge divina la giusta misura di ogni legge umana. Questa ricerca indaga sui numerosi intrecci tra scienza morale e teoria del diritto naturale, dandone una visione d’insieme. La teoria della conoscenza ockhamiana enfatizza il ruolo della ragione attraverso la quale si rendono evidenti i principia per se nota che, nel Dialogus, sono a loro volta presentati come quegli iura naturalia universali e immutabili, a proposito dei quali non è possibile dubitare. La potentia intellectiva ci offre due distinte tipologie: l’actus apprehensivus e l’actus iudicativus. Il primo permette di apprendere i termini (incomplexa) e tutto ciò che riguarda le potenzialità dell’intelletto nella fase dell’apprendimento. Con il secondo, successivo, l’intelletto assente o dissente su ciò che ha appreso. L’evidenza assume un ruolo centrale: essa garantisce affinché l’intelletto non si inganni quando la conoscenza è ‘naturale’ e permette di formulare un giudizio di assenso circa la verità di una proposizione. Nel Prologo ai Commenti alle Sentenze, il filosofo spiega chiaramente che la notitia evidens è più ampia ed estesa della scientia in senso stretto; quest’ultima infatti si limiterebbe a proposizioni necessarie (qui l’evidenza riguarderebbe i princìpi e le conclusioni che ne seguono), mentre la notitia evidente può aversi anche di proposizioni contingenti. Nel Prologo egli insiste sulla notitia intuitiva rerum pure intelligibilium (distinguendo sensibilia e intelligibilia) e afferma che le conclusioni pratiche de intelligibilibus sono evidentissime. C’è una verità che la ragione può mettere in luce e questa non contraddice la verità di fede. Nel campo della filosofia morale l’attività speculativa di «theologi et veri philosophi» converge nella conoscenza del diritto naturale. La distinzione ockhamiana tra fede e conoscenza razionale non ha nulla di manicheo, anzi è stata meglio definita come «an irenic separatism». I commentatori medievali presentarono la teoria del diritto naturale esposta nel Dialogus una «pulchra definitio iuris naturalis». Guglielmo riconosce al diritto naturale l’immutabilità che la tradizione medievale gli aveva sempre attribuito, ma non nega una sua variabilità dovuta a quelle circostanze che hanno determinato il sorgere di forme di dominium non presenti nello status naturae institutae. Il filosofo propone dunque una teoria articolata che analizza lo ius naturale attraverso tre modi diversi ma non opposti tra loro, riponendo una grande fiducia nell’infallibilità della ragione umana: ognuno dei tre modi in cui si può intendere il diritto naturale mantiene intatta la sua razionalità. Evidenti ratione colligitur.
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