La riflessione sul male e sul polemos ha da sempre accompagnato la filosofia. Rispetto a tale interesse, i testi sempre più numerosi che fin dai primi anni ‘20 del secolo scorso hanno messo a fuoco la centralità dell’altro e dell’estraneo sembrano rappresentare una sorta di passo indietro, una “questione di ritorno” al di qua del male e del conflitto per interrogarsi, invece, sulla portata della questione dell’alterità e dell’estraneità nella costituzione del sé, la cui centralità precede il conflitto, pur inevitabile. Da Husserl, da Levinas e da Ricoeur siamo stati provocati a pensare l’io con l’altro (Husserl), ingiunto dal comandamento etico dell’altro (il “Tu non ucciderai” di Levinas) o come altro (Ricoeur); provocati ad assumere l’altro non come ostacolo ma come colui che mi riguarda nella mia stessa identità, che mi riguarda nella mia sfera di appartenenza più propria. L’insistenza sul tema, ampiamente declinato a partire da questi autori, nel tempo è diventata una sorta retorica dell’altro, quasi un souviens toi! destinato ad ammonire sui devastanti esiti cui s’incorre obliando l’altro, primo fra tutti quella riduzione solipsistica del sé più prossima a un devastante egoismo che a un normale e auspicabile amor sui. Tuttavia, a fronte del continuo fiorire di tali riflessioni, la questione dell’altro si mostra ancora insolvibile, tanto da necessitare di un’insistente ripetizione teoretica ed etica, la cui enfasi è direttamente proporzionale alle vicende storiche e sociali che la sollecitano. Retorica non persuasiva nella misura in cui – nonostante l’evidente e insistente ribadire che l’altro e l’estraneo incidono in noi, con noi e per noi – assume più la forma di un auto-convincimento di fatto inincidente, ovvero tale da non cambiare nulla circa la comprensione dell’altro e di sé. Ovvero, non persuade. Se tale retorica dell’altro è non persuasiva, facendo dell’altro argomento di raffinati proclami etici, ciò accade anche perché è sempre segnata da un movimento che va da me verso l’altro, e anche quando l’esposizione all’altro è radicale, come nel caso del primato della totale esposizione ad Altri proposta da Levinas – tanto radicale al punto da rovesciare completamente in Altri la centralità dell’io – comunque l’io assoggetta all’altro ma non persuade. Per tale persuasione va guadagnato un punto ancora più originario, dove io e l’altro siamo insieme senza primati ma in una reciproca estraneità. Ora, per quanto riguarda l’altro la sua estraneità è un dato di fatto: l’altro è altro da me. Ma quanto a me stesso, com’è possibile parlare di estraneità? Com’è possibile che io – in stato di salute mentale e di coscienza – sia in realtà estraneo a me, in me e per me? Posso, certo, parlare dell’alterità in me, come già Ricoeur ha proposto individuando tale alterità radicale nell’alterità del mio corpo proprio, mio (perché mi appartiene e individua in proprio) ma anche altro perché è passività in me; ancora, individuandola nell’alterità della relazione etica con ogni “altro” e, infine, nell’alterità di ciò che Heidegger ha chiamato l’appello della coscienza morale (Gewissen). Ma non è l’estraneo che io sono, è alterità in me, nella forma della passività corporea e della responsabilità etica. Non è estraneità che scopro nella sua cogenza nei miei riguardi, estraneità persuasiva sulla quale la filosofia, nella sua storia, si è comunque interrogata.

L'ESTRANEO CHE IO SONO

CANULLO, Carla
2012-01-01

Abstract

La riflessione sul male e sul polemos ha da sempre accompagnato la filosofia. Rispetto a tale interesse, i testi sempre più numerosi che fin dai primi anni ‘20 del secolo scorso hanno messo a fuoco la centralità dell’altro e dell’estraneo sembrano rappresentare una sorta di passo indietro, una “questione di ritorno” al di qua del male e del conflitto per interrogarsi, invece, sulla portata della questione dell’alterità e dell’estraneità nella costituzione del sé, la cui centralità precede il conflitto, pur inevitabile. Da Husserl, da Levinas e da Ricoeur siamo stati provocati a pensare l’io con l’altro (Husserl), ingiunto dal comandamento etico dell’altro (il “Tu non ucciderai” di Levinas) o come altro (Ricoeur); provocati ad assumere l’altro non come ostacolo ma come colui che mi riguarda nella mia stessa identità, che mi riguarda nella mia sfera di appartenenza più propria. L’insistenza sul tema, ampiamente declinato a partire da questi autori, nel tempo è diventata una sorta retorica dell’altro, quasi un souviens toi! destinato ad ammonire sui devastanti esiti cui s’incorre obliando l’altro, primo fra tutti quella riduzione solipsistica del sé più prossima a un devastante egoismo che a un normale e auspicabile amor sui. Tuttavia, a fronte del continuo fiorire di tali riflessioni, la questione dell’altro si mostra ancora insolvibile, tanto da necessitare di un’insistente ripetizione teoretica ed etica, la cui enfasi è direttamente proporzionale alle vicende storiche e sociali che la sollecitano. Retorica non persuasiva nella misura in cui – nonostante l’evidente e insistente ribadire che l’altro e l’estraneo incidono in noi, con noi e per noi – assume più la forma di un auto-convincimento di fatto inincidente, ovvero tale da non cambiare nulla circa la comprensione dell’altro e di sé. Ovvero, non persuade. Se tale retorica dell’altro è non persuasiva, facendo dell’altro argomento di raffinati proclami etici, ciò accade anche perché è sempre segnata da un movimento che va da me verso l’altro, e anche quando l’esposizione all’altro è radicale, come nel caso del primato della totale esposizione ad Altri proposta da Levinas – tanto radicale al punto da rovesciare completamente in Altri la centralità dell’io – comunque l’io assoggetta all’altro ma non persuade. Per tale persuasione va guadagnato un punto ancora più originario, dove io e l’altro siamo insieme senza primati ma in una reciproca estraneità. Ora, per quanto riguarda l’altro la sua estraneità è un dato di fatto: l’altro è altro da me. Ma quanto a me stesso, com’è possibile parlare di estraneità? Com’è possibile che io – in stato di salute mentale e di coscienza – sia in realtà estraneo a me, in me e per me? Posso, certo, parlare dell’alterità in me, come già Ricoeur ha proposto individuando tale alterità radicale nell’alterità del mio corpo proprio, mio (perché mi appartiene e individua in proprio) ma anche altro perché è passività in me; ancora, individuandola nell’alterità della relazione etica con ogni “altro” e, infine, nell’alterità di ciò che Heidegger ha chiamato l’appello della coscienza morale (Gewissen). Ma non è l’estraneo che io sono, è alterità in me, nella forma della passività corporea e della responsabilità etica. Non è estraneità che scopro nella sua cogenza nei miei riguardi, estraneità persuasiva sulla quale la filosofia, nella sua storia, si è comunque interrogata.
2012
9788860563460
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11393/148812
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